mercoledì 28 gennaio 2015

Incontro V: Mitologia Norrena - Racconto

-          La Creazione del Mondo
Fu per un tempo indefinito che le braci crepitanti e i cristalli di ghiaccio mulinarono vorticosamente all’interno della lugubre voragine. Mulinarono forte, sempre più forte finché all’interno del ghiaccio brillò una scintilla di vita dalla quale emerse una figura terribile, il gigante Ymir, il primo della stirpe degli jotun. Al suo fianco una mucca di ghiaccio. Così vissero per molto tempo sull’orlo del Ginungagap (il Vuoto), il gigante e la mucca.
Non mancava di certo il cibo per Ymir: quattro fiumi di spuma bianca come il latte fluivano incessantemente dalle mammelle della mucca e più beveva e più lo jotun cresceva. La mucca trovò cibo leccando il bordo salato del Ginungagap.
Un giorno il gigante si addormentò e, mentre riposava, due jotun, un maschio ed una femmina, nacquero dal tepore della sua ascella sinistra. Un troll con sei teste, invece, spuntò dai suoi piedi. Come Ymir, sebbene non così giganteschi, erano tutti rozzi e selvaggi.
Con il tempo, a forza di leccare, la lingua della mucca divenne calda e dall’orlo salato della voragine spuntarono prima dei capelli e poi un viso. La mucca continuò a leccare il Ginungagap e apparirono delle spalle, un petto, delle gambe; infine una creatura mai vista saltò fuori dal vuoto: un maschio di bell’aspetto del tutto diverso dagli orribili jotun e dai troll fino ad allora esistiti esistiti.
Da quest’ultima creatura nacque un figlio, ancor più bello, che sposò un’incantevole fanciulla jotun. Dalla loro unione nacquero tre figli con i capelli così biondi che illuminarono l’oscurità intorno. Furono i primi dei Asi: Odino, Vè e Vili (Spirito, Volontà e Tepore), sacri e di animo nobile. I tre giovani avevano il potere di
creare mondi.
Ma, prima di poter creare, dovevano liberarsi del gigantesco Ymir: i tre Asi affrontarono quindi il vecchio jotun, lo uccisero e spinsero l’enorme corpo dentro il Ginungagap. Dalle sue ferite uscì così tanta acqua che la buca si riempì e traboccò, riportando a galla il corpo del gigante e annegando i suoi figli e la mucca.
Si salvarono solo uno jotun e la sua compagna, che dopo essersi arrampicati su dei banchi di ghiaccio, andarono a vivere sulle lontane rive del mare appena creato. Gli Asi non li inseguirono e ben presto Jotunheim, la terra imprigionata dai ghiacci, fu popolata dai loro figli. Gli Asi sollevarono il corpo di Ymir e con quello crearono la terra: Midgard. Spinsero il Niflheim - il regno di ghiaccio e morte - nelle profondità della loro creazione, in modo che non potesse congelare la terra.
Il cranio di Ymir fu posto sopra la terra e il mare, come fosse un cupola che protegge il mondo dalle scintille che salivano dal Muspelheim; proprio da queste scintille crearono il sole, la luna e le stelle.
Tuttavia il giorno e la notte ancora non esistevano.
Allora Odino, Vè e Vili crearono due carri, vi adagiarono il sole e la luna e fecero trottare i cavalli in giro per il cielo. Ma gli jotun e i troll erano esseri oscuri che odiavano la luce: si trasformarono in lupi, saltarono sopra la cupola del cielo e cercarono di rincorrere i carri che trasportavano il sole e la luna per divorarli.
I cavalli, temendo per la loro vita, si misero a correre senza sosta, sempre più veloci, intorno alla terra e fu così che comparvero il buio e l’alba.
Oltre agli Asi, esistevano altri dei, i Vanir. Vivevano in un mondo confinante, il Vanaheim, ed erano gli dei della pioggia e dei venti. Quando la pioggia iniziò a cadere, bagnando i peli della barba di Ymir, germogliò l’erba che ricoprì tutte le vallate, mentre i capelli si trasformarono in fitti boschi. Era una terra paradisiaca e gli Asi presero a popolarla: prima fecero gli elfi, creature luminose come il sole, che abitavano nel mondo di Alfheim. Quindi gli Asi mutarono dei vermi, che vivevano nel sottosuolo, in gnomi donando loro gli strumenti necessari per estrarre i metalli. Non avevano un buon carattere, questi gnomi, ma erano minatori e fabbri formidabili e rifornivano gli Asi di oro, argento e ferro. Dopo gli gnomi, gli Asi crearono i folletti e gli spiritelli e diedero loro il compito di curare ogni collina, montagna, lago e cascata. Crearono i pesci, gli uccelli e gli animali.
Ma, nonostante il loro mondo apparisse perfetto, gli Asi sapevano che mancava ancora qualcosa: mancava qualcuno che li adorasse.

Così decisero di dare vita al primo uomo.

Incontro V: Mitologia Norrena - Gli dei principali

Gli dei: Asi e Vani
Con mitologia norrena, mitologia nordica o mitologia scandinava ci si riferisce all'insieme dei miti appartenenti alla religione tradizionale pre-cristiana dei popoli scandinavi, inclusi quelli che colonizzarono l'Islanda e le Isole Fær Øer, dove le fonti scritte della mitologia norrena furono assemblate.
Secondo la mitologia norrena il mondo sensibile è "Miðgarðr" (lett. "Terra di Mezzo"). Circondata dalle acque, alla sua sommità si trova Asgarðr, la dimora degli dei, raggiungibile unicamente tramite Bifröst, il ponte dell'arcobaleno. I Giganti vivono all'esterno del mondo, al Nord, in un luogo chiamato Jötunheimr ("Terra dei Giganti"). La dea Hel governa il sotterraneo regno "Helheim" ("Dimora di Hel"), luogo predestinato ai defunti. Nel Sud vi è l'infuocato e misterioso reame di Muspell, il Múspellsheimr dimora dei giganti del fuoco. Ulteriori regioni dell'immaginario norreno sono Álfheimr dimora degli "elfi chiari" (ljósálfar), Svartálfaheimr dimora degli elfi oscuri e Niðavellir le miniere dei Nani.
Le divinità sono divise in due classi: gli Æsir (Asi) e i Vanir (Vani). La distinzione non è tuttavia netta: nel passato remoto le due fazioni si fronteggiarono in guerra, ma in seguito raggiunsero la pace, si scambiarono ostaggi e alcuni membri si unirono in matrimonio. Di determinate divinità non è chiara l'appartenenza a una delle due classi.
• Gli ASI (al singolare Áss, al femminile singolare Ásynja, al femminile plurale Ásynjur) sono: Odino (Óðinn), Thor (Þórr), Baldr, Týr, Bragi, Heimdallr, Höðr, Víðarr, Váli, Forseti, Loki, Frigg, Sága, Eir, Gefjun, Fulla, Sif, Lofn, Vár, Vör, Hlín, Snotra e Gná.
• I VANI sono: Njörðr, Freyr, Freyja, Gullveig e Ullr.

Analisi degli dèi principali: Odino, Thor e Tyr
Odino
Nella mitologia norrena Odino è il re della classe di divinità dette Asi, ed è associato alla sapienza, all'ispirazione poetica, alla profezia, alla guerra e alla vittoria. Brandisce Gungnir, la sua lancia, e cavalca Sleipnir, il suo destriero a otto zampe. Figlio di Borr e della gigantessa Bestla, fratello di Víli e Vé, sposo di Frigg e padre di molti degli dèi, tra cui Thor (il Fulmine ordinatore), e Baldr. Spesso viene inoltre definito "Padre degli Dèi" o Allföðr, Allvater, Allfather ("Padre del Tutto").
Odino guiderà gli dèi e gli uomini contro le forze del caos nell'ultima battaglia, quando giungerà il Ragnarök, la fine del mondo, nel quale il dio sarà ucciso, inghiottito dal temibile lupo Fenrir, per essere immediatamente vendicato da Víðarr che ne lacererà le fauci dopo avergli piantato un piede nella gola.
Essendo il più antico degli dèi e il creatore del mondo e di tutte le cose, personificazione della sorgente stessa del tutto, Odino è il signore della sapienza, conoscitore delle essenze più antiche e profonde. Egli conosce per primo tutte le arti e in seguito le ha insegnate agli uomini.
La sapienza di Odino è conoscenza, magia e poesia al tempo stesso. Egli non solo conosce i misteri dei Nove Mondi e l'ordine delle loro stirpi, ma anche il destino degli uomini e il fato stesso dell'universo.
Odino ha al suo seguito diversi animali. Innanzitutto i due corvi Huginn e Muninn (i nomi significano pensiero e memoria), che spedisce ogni giorno in giro per il mondo perché, quando essi ritornano al tramonto, gli sussurrino ciò che hanno visto; e poi due lupi, Geri e Freki, ai quali getta il suo cibo durante le cene del Valhalla (sua dimora) visto che egli si nutre esclusivamente di idromele e di vino.
Thor
Thor (norreno Þórr) è una delle principali divinità scandinave, noto come il dio del tuono.
Figlio di Odino e di Jörð, dea della terra, era il più forte degli dèi. Sua moglie si chiamava Sif e i suoi figli erano Magni, Þrúðr e Móði.
Mentre Odino era considerato re degli dèi, il rosso Thor dalla fluente barba e dai possenti muscoli, era un po' più il dio degli uomini. Da loro era molto amato, tanto che i Vichinghi si definivano Popolo di Thor.
La sua forza, già leggendaria, era aumentata da tre oggetti che non abbandonava mai e che lo rendevano quasi invincibile: una cintura che raddoppiava la forza di chi la indossava, un paio di guanti di ferro e il leggendario martello Mjöllnir, strumento usato per colpire i mostri e i nemici, dal funzionamento analogo a quello di un boomerang, che simbolicamente rappresentava il fulmine e, dunque, preannunciava le piogge. I contadini erano soliti indossare catenine con appesi martelletti proprio per ingraziarsi la divinità.
Il suo mezzo di spostamento era un carro trainato da due capre (Tanngnjóstr e Tanngrisnir). Anche questi animali avevano proprietà portentose: per Thor, durante i suoi viaggi, era consuetudine cibarsene considerando che, conservando le pelli e le ossa, il mattino seguente sarebbero rinati.
Tyr
Týr era il dio della guerra nella mitologia norrena, nonché patrono della giustizia.
Era il protettore della guerra e della vittoria. Prima di ogni battaglia, i guerrieri, frementi per la tensione, rivolgevano a lui le loro preghiere e stringevano nervosamente le lance e le spade su cui era inciso il nome di Tyr. Ogni arma era dedicata a questo dio, richiamato dal potere magico delle rune, che imprimevano il suo nome e la sua forza nelle lame che in pochi istanti sarebbero divenute rosse di sangue. Per propiziarsi la vittoria, i guerrieri si chinavano sulle armi incise e pronunciavano tre volte il nome di Tyr, a cui stavano chiedendo protezione. Nonostante fosse il dio della guerra, non godeva della violenza esasperata e del sangue versato, ma concepiva la guerra solo come il mezzo estremo per risolvere una contesa tra due parti in conflitto. Ecco perché Tyr era anche il dio del diritto, che spesso fungeva da giudice (Nota: gli scandinavi spesso usavano la guerra come mezzo per risolvere una contesa; chi vinceva uno scontro dimostrava di avere gli dèi dalla propria parte e, in sostanza, di avere ragione).

Tyr ha una caratteristica davvero inusuale: è privo della mano destra. Questa mutilazione, operata dal gigantesco e famelico lupo Fenrir, è frutto di un sacrificio che Tyr fece per il bene degli Asi (infilò la mano nella bocca del lupo per permettere ai suoi compagni di imprigionarlo).

domenica 25 gennaio 2015

Quarto incontro: mitologia Celtica - Chi trova un Leprechaun trova un tesoro (Racconto)


Thory era orfano di padre e di madre e lavorava nelle miniere di Foggy Hill. A lui toccava trasportare il carbone fino ai carri che sostavano fuori dal recinto. Così, con una vecchia carrettina sgangherata, andava tutto il giorno avanti e indietro, sotto il sole o sotto la pioggia, con il caldo o con il freddo, con la schiena piegata, le gambe stanche, le braccia a pezzi. Aveva iniziato quel lavoro da bambino e ora che aveva quindici anni, già non ne poteva più. Pensava che non avrebbe retto a lungo e i suoi compagni di lavoro non gli davano torto perchè Thory era diverso da tutti loro e possedeva qualcosa di speciale. Il suo aspetto era elegante nonostante indossasse vecchi cenci logori e il suo portamento era signorile nonostante le spalle incurvate per la fatica. Sapeva appena leggere e scrivere, ma spendeva tutta la sua misera paga in libri. Ne leggeva in gran quantità, di ogni tipo. Tutte le sere, chiuso nel suo tugurio si stendeva sul pagliericcio e leggeva a lume di candela. Leggendo leggendo, Thory acquisì un mucchio di conoscenze in ogni campo. Si interessò soprattutto di fate e folletti e queste creature divennero suoi migliori amici. Di giorno ne parlava ai suoi colleghi e di sera si rivolgeva a loro in colloqui immaginari. Era affascinato in particolare dai Leprecauni che i suoi libri descrivevano come omini piccoli piccoli che abitavano in casupole nelle radici degli alberi e facevano i ciabattini, anche se fabbricavano solo scarpe sinistre, mentre al piede destro indossavano solo una calza rossa. I Leprecauni erano molto ricchi, ognuno di loro possedeva, nascosta chissà dove, una pentola piena di schegge d’oro. Thory pensò che anche solo qualche scheggia d’oro sarebbe stata sufficiente a comprare una casa, un podere e qualche mucca e a toglierlo così per sempre dalla miseria e dalla miniera. Ma come trovarle, senza un Leprecauno disposto a indicargli il nascondiglio segreto della pentola? Allora si fece prestare una lente d’ingrandimento e adottò un segugio che aveva perso il suo padrone e Iniziò così a perlustrare tutte le foreste della zona centimetro per centimetro. Ogni albero era ispezionato con attenzione, mentre il cane si occupava delle radici, Thory controllava con la lente tutte le fessure della corteccia. Ogni macchia rossa nel sottobosco gli sembrava un cappello e a ogni piccolo rumore credeva di essere vicino alla botteguccia del ciabattino. Nonostante tutti questi sforzi, Thory non trovò niente. Cominciò allora ad uscire nei boschi anche di notte sperando di incontrare i folletti usciti per danzare al chiaro di luna, ma non servì a nulla. Povero Thory! I compagni di miniera pensarono che fosse uscito fuori di senno e lui stesso non trovava più pace. Ma ecco che un giorno, quando meno se l’aspettava, accadde l’incredibile. Come sempre era intento a trasportare la sua carriola avanti e indietro ed era così stanco che camminava come una lumaca e davanti agli occhi aveva sempre i suoi leprecauni e per questo inciampava e sbandava e non ascoltava neanche le voci di chi gli diceva di fare attenzione. A un tratto, tra gli schiamazzi generali, udì una vocina flebile flebile che diceva:- quando ti degnerai di darmi retta? Non ne posso più di tutto questo carbone, finirò per rovinarmi i polmoni e morire in questa carriola se non ti giri! E quando infine si voltò, vide un omino tutto nero di carbone agitarsi nella carriola e stentò a riconoscerlo:- Ma tu chi sei? – Chi sono io? Non ti sono serviti proprio a niente tutti quei libri che hai letto! Mi hai cercato dappertutto e ora che ti sto davanti non mi riconosci? Thory non credeva alle proprie orecchie e per l’emozione gli si attorcigliava la lingua e le parole gli si strozzavano in gola. _ Sì mio caro, sono un Leprecauno e ti cerco da almeno qualche secolo. Le nostre tris-tristrisavole erano sorelle e noi siamo cugini di non so più quale grado! Questo era davvero troppo! Parente di un Leprecauno? Possibile mai? Con mano tremante Thory raccolse l’omino e lasciò la miniera in pieno giorno. Quella faccenda era troppo strana, voleva vederci chiaro. I compagni, osservandolo andar via bianco come un cencio e con in mano un mucchietto di carbone pensarono che fosse ammattito del tutto! E invece… arrivato al tugurio di Thory il Leprecauno si ripulì, si sfamò con un po’ di latte e raccontò al cugino la sua vita e le parentele che li univano. Il folletto si commosse nel vedere in quale miseria vivesse il cugino e senza aspettare che questi parlasse del tesoro , gli disse:- Come sai, ogni Leprecauno possiede un gruzzolo di monete d’oro che gli viene donato poco per volta, di anno in anno, nella notte di Ognissanti. Poiché nelle tue vene scorre sangue fatato, anche tu hai diritto alla tua porzione di oro magico. Quest’anno verrai con me alla radura fatata e ti prenderai ciò che ti spetta. Anche se mancavano solo pochi giorni, a Thory quella notte sembrava non arrivare mai, poi finalmente, la sera della vigilia, il Leprecauno lo condusse nel folto della foresta, nei pressi di un laghetto che si apriva dietro un enorme cespuglio reso ancora più grande dalle tenebre della notte. Era un luogo meraviglioso che Thory, pur conoscendo il bosco come le sue tasche, non aveva mai visto prima. I raggi di luna danzavano sullo splendido specchio d’acqua facendo mille figure con i riflessi argentati, gli uccellini della foresta, assiepati sui rami degli alberi, facevano da musicisti coi loro canti e gli animali convenuti sulla riva si gustavano estasiati le danze. Alla prima pausa, il Leprecauno e Thory fecero tre inchini, avanzarono di tre passi e si chinarono per tre volte a raccogliere nel palmo della mano un po’ d’acqua per lavarsi il viso. Era il rito della purificazione necessario per accedere alla radura incantata la notte successiva. Fatti altri tre inchini, i due si ritirarono e Thory fu sorpreso di vedere dietro di loro una lunga fila di leprecauni in attesa di purificarsi. L’indomani, verso il tramonto, Thory e il folletto attraversarono la strada principale del paese, giunsero alla piazza, presero a destra, a sinistra e poi ancora a destra mentre la strada si faceva sempre più ripida. Alla quarta curva arrivarono a un abbeveratoio che Thory non ricordava di aver mai visto. Bevvero tre sorsi d’acqua e ripresero il cammino, ma da quel punto in poi, Thory proseguì come un sonnambulo dietro le orme del folletto, finchè giunsero a una radura. Qui gli occhi del giovane tornarono ad a aprirsi. Era notte, ma il paesaggio era illuminato a giorno da una luna splendente. Erano circondati da pioppi alti e fruscianti e nel mezzo sorgeva un gigantesco biancospino dai fiori candidi e rilucenti. Il loro profumo attrasse come per magia i due visitatori ai piedi del cespuglio che, chinato un ramo, li accolse nei petali di due corolle. Thory si ritrovò così nel fortino dei leprecauni fatto di tante stanze, tutte splendenti d’oro. Il folletto lo guido al camerino dove c’era il tesoro che lo aspettava da secoli: tre monete d’oro lucenti e grandi come una padella. Thory si chinò per raccogliere il primo pezzo d’oro e quando lo accostò al sacchetto, la moneta si trasformò in una meravigliosa cascata d’oro e lo stesso accadde con le altre due: piovvero così tante schegge d’oro che la saccoccia di Thory dovette dividersi magicamente in almeno altri venti sacchetti e altrettanto magicamente il giovedì riuscì a caricarsi tutto quell’oro e a portarlo fuori. Appena usciti dal biancospino il folletto disse addio al cugino. Doveva rientrare alla sua casina entro mezzanotte per depositare la sua parte d’oro e la strada era lunga e aveva solo pochi minuti, così sparì all’improvviso e Thory si ritrovò solo e spaesato. Eppure, lasciò che i piedi andassero da soli, imbroccò la strada giusta e giunse sano e salvo al suo tugurio che quasi non conteneva tutto quell’oro. Da quel giorno Thory divenne un uomo ricco e stimato e in paese tutti impararono il valore inestimabile della cultura e quanto i libri possano arricchire la vita di un uomo.

Quarto incontro: Mitologia Celtica - Dei e creature magiche del Tir Na Nog

Chi sono le divinità irlandesi?

Nelle tradizioni irlandesi, i Túatha Dé Danann («popolo della dea Danu» o «dio la cui madre è Danu») furono il quinto dei sei popoli preistorici che invasero e colonizzarono l’Irlanda prima dei Gaeli. Si ritiene che essi vadano identificati – in tutto o in parte – con gli dèi adorati dagli stessi Gaeli. Ma chi sono questi dèi/uomini di cui parlano le leggende e quali sono i loro numi tutelari?


Dagda : è una divinità della guerra, conosciuto anche come Eochaid “colui che combatte con il tasso” o Ollathair “padre potente”. Era detto il Dio Buono, perchè era lui ad esaudire la maggior parte delle preghiere, dominava il tempo e si assicurava che i campi fossero fertili. Possiede un’arpa magica, capace di suscitare molteplici emozioni, ma la sua arma è una clava che ha il potere di riportare alla vita (secondo alcune leggende è il possessore del calderone della resurrezione).


Nuada : era il primo re dei Tuatha De Danann. Era chiamato
anche Airgetlám “mano o braccio d’argento” perchè perse l'arto nella prima battaglia di Magh Tuiredh. Bisogna ricordare che la spada di Nuada è uno dei quattro tesori dei Tuatha.

Lugh : indicato anche come Lugh “figlio del Sole” o “il luminoso”, Lewy “dalla lunga mano (Làmfata)” o Lugu, è protettore dei mercanti e dei viaggiatori. E' la divinità solare per eccellenza. Padroneggia tutte le arti, e
diviene Re dei Tuatha De Danann dopo la seconda battaglia di Magh Tuiredh. E’ possessore del secondo dei quattro tesori, la lancia Slèabua che dona l’invincibilità; viene raffigurato biondo e senza barba, con la lancia in mano. La leggenda vuole che sia il padre del famoso eroe irlandese CuChulainn. A Lugh è dedicata la festa celtica di Lughnasad.

Ogma : o Ogmios è il Dio della forza e della battaglia, ma anche della scrittura. Dal suo nome, infatti, deriva l’antica scrittura Ogam, conosciuta solamente dalla casta sacerdotale e considerata uno dei Misteri della religione celtico irlandese. Ogma è anche colui che tramite la scrittura pratica la magia, incantando un oggetto. La sua figura è legata all’Aldilà, il dio è colui che conduce le anime nel mondo dei morti. Spesso è associato a Lugh e viene considerato la sua parte oscura.

Manannan : o Mac Lir è il Dio del mare e di ogni vento; era presente nei culti precedenti all’avvento dei Tuatha, tuttavia lo si considera all'interno di questo pantheon. Manannan, conosciuto anche come Orbsen od Oirbsen, è il protettore di ogni isola sacra. Si dice che regni sovrano nel Tir na Nog. Il suo nome deriva dall’Isola di Man, mentre Mac Lir significa semplicemente “figlio del Mare”.


Brigit : è la dea protettrice dei druidi, dei guerrieri, degli artigiani, dei poeti e dei guaritori. Aveva come epiteti Belisama “colei che brilla molto”, Brigantia “l’altissima” e Bricta “brillante”. Dopo la cristianizzazione dell’Irlanda, Brigit divenne “Santa Brigida” nutrice di Gesù. Infatti la notte tra l’1 e 2 febbraio, originariamente la festa di Imbolc, è ora dedicata alla santa.



Morrigan : è la Dea Irlandese della morte e della battaglia. Padrona della metamorfosi, ama cambiare forma quando gli eventi lo richiedono: appare spesso come un corvo sui campi di battaglia, e nella saga di CuChulainn, appare all’eroe diverse volte in svariate forme. Secondo la leggenda veste di rosso, come rossi sono i suoi capelli, poiché il rosso è il colore dell’Aldilà. È possibile vederla mentre guida il suo carro, trainato da un cavallo fantasma. Molti pensano che la dea Morrigan sia uno degli aspetti di Danu stessa.


Danu : o Dana in Irlandese moderno, è la madre dei Tuatha de Danann (che significa
appunto “genti della dea Danu”). La sua figura è presente in quasi tutte le tradizioni celtiche, protettrice delle madri e delle partorienti, simboleggia la Terra e la natura incontaminata.


Che cos'è il Tir na Nog?
Il Tir na Nog (la terra dell’eterna giovinezza) è uno degli altri mondi della mitologia celtica. Qui risiedono i Tuatha de Danann e il cosidetto “piccolo popolo”, composto da fate, folletti, gnomi e altre creature. Il Tir na Nog è un’isola lontana, che a volte appare tra le nebbie, altre volte è raggiungibile attraverso lunghi viaggi; talvolta sono gli elfi o le fate ad invitarvi gli umani. Qui la morte e la malattia non possono giungere, in questo mondo esistono solo le cose piacevoli della vita. In numerosi racconti ( come in quello di Finn) l’eroe che visita queste terre si trova talmente affascinato dalla bellezza della vita che per qualche tempo vi rimane per un paio di giorni. Tornato in patria, puntualmente, scopre di aver trascorso lontano da casa lunghissimi periodi di tempo (nel ciclo arturiano Morgana visita questo mondo e vi rimane intrappolata per dieci anni, anche se a lei paiono pochi giorni). 


Le Creature Magiche di Irlanda


Il Leprechaun
Il nome bizzarro deriva dal gaelico “leath bhrogan” che significa “calzolaio”. Il nostro minuscolo ometto, infatti, è l’unico in tutto il popolo dei folletti ad avere un’attività: il leprechaun s’industria al suo deschetto per fabbricare le scarpe che i suoi colleghi folletti consumano a furia di gighe sfrenate; forse è per questo che, un po’ frustrato dalla sua situazione lavorativa, lo si trova quasi sempre vagamente alticcio. Il leprechaun è anche il guardiano di favolosi tesori, di solito monete d’oro custodite in un pentolone situato alla fine dell’arcobaleno. Lui sa dove finisce, voi no, e così se il dorato metallo vi fa gola, dovete tentare di catturarne uno!
METODO DI CATTURA: ritagliate un’apertura superiore in una scatola di cartone dipinta di verde e dissimulate l’ingresso con un pezzo di carta piuttosto spesso, in grado di sostenere il peso di qualche moneta. Piazzate la trappola su un cespuglio o tra i rami bassi di un albero, e dissimulatene la presenza con erbe, trifogli e quant’altro. Se avete fatto tutto per bene, il leprechaun, attratto dalle monete, cadrà dentro la scatola, dove voi avrete predisposto anche un bel bicchierino di potcheen, con il quale l’ingordo nanetto si sbronzerà, rendendo la cattura un gioco da ragazzi! Attenzione (!!!) Essendo una creaturina furba e velocissima, non mollatelo finchè non vi avrà condotto alla pentola d’oro e non accettate nessuna delle due monete che egli porta nella sua borsa: la moneta d’argento ritorna magicamente nel suo borsellino ogni volta che viene spesa, mentre quella d’oro si trasforma in cenere, foglie secche o pietra nelle mani dell’ingenuo che l’ha presa in pagamento per la libertà del malefico piccoletto.
Ma, direte voi, come faccio ad acchiappare qualcosa se non so neppure com’è fatto? Presto detto: il leprechaun è piccolo, con vestiti verdi di vecchia foggia ed un cappello con fibbia estremamente comune; possiede barba e capelli rossi, fuma una pipa in terracotta e ha curiose scarpe dotate di fibbia (come il cappello).
La Banshee
Il nome deriva dal gaelico “bean-sidhe”, che significa quasi letteralmente “fata donna”. L'ululato altissimo, sinistro e straziante della Banshee annuncia la morte imminente di un membro delle 5 casate anticamente più rinomate d’Irlanda: O’Neill, O’Grady, O’ Brien, O’Connor e Kavanagh.
Di solito avvolta in un lungo mantello grigio con tanto di cappuccio, l’orribile vecchiaccia menagramo (che può assumere però anche l’aspetto di una fanciulla soave o di una imponente matrona) è conosciuta in alcune zone d’Irlanda come “bean-nighe” cioè “lavandaia”, in quanto è stata spesso vista nell’atto di lavar via le macchie di sangue dagli abiti di coloro che stanno per morire.
Il lamento della banshee viene descritto in molti modi, simile al verso di un gufo, oppure basso e melodioso, o ancora talmente acuto da far esplodere i vetri.
La Mermaid
La parola gaelica “moruadh” deriva dall’insieme di "muir" (mare) e "oigh" (fanciulla). La Mermaid è una creatura marina metà donna e metà pesce, che può assumere le sembianze umane (cioè farsi spuntare le gambe al posto della coda) e mescolarsi fra la gente. Particolarmente avvenenti, si innamorano spesso dei marinai umani e intrattengono con loro relazioni clandestine. Per poterle legare definitivamente ad una vita sulla terra ferma, è necessario sottrarre loro il cappellino rosso piumato (cohullen druith) che indossano abitualmente, senza il quale è preclusa loro ogni possibilità di ritorno agli abissi marini. La faccenda del cappellino è valida però solo per le sirene delle spiagge del Kerry, di Cork e di Waterford, poichè le signorine del nord viaggiano a capo scoperto e si avvolgono, di solito, in una pelle di foca: anche in questo caso il furto della pellicciotta impedirà alla sirena (denominata “selkie”) di rituffarsi tra le onde e tornare alla sua umidissima magione sottomarina. Una moglie sirena può costituire un buon affare, perché si dice che porti ricchezza e fortuna al marito. Però, se riuscisse a ritrovare il cappellino (o la pelle di foca) sottrattole, questa dolce creatura marina scapperebbe abbandonando marito e figli senza alcun rimpianto.

Il Pooka
Il Pooka è un emerito rompiscatole, in grado di assumere varie sembianze e combinare un sacco di guai. Di volta in volta può assumere l’aspetto di un cavallo nero dagli occhi gialli, che galoppa selvaggiamente per ogni dove, rovinando i raccolti e schiacciando sotto gli zoccoli il bestiame, oppure può apparire come un folletto deforme, che reclama una parte del raccolto (per accontentarlo, i mietitori tralasciano a volte alcune strisce di messi).
Qualunque sia l’aspetto prescelto per le sue apparizioni, ‘sto disgraziato è come un medicinale con gravi effetti collaterali: le galline non depongono più le uova, le vacche non danno più latte, e i malcapitati viaggiatori che hanno la sfortuna d’incontrarlo durante le sue scorribande notturne presto incappano in un fossato o in qualche zona pantanosa.
Il primo novembre è il giorno sacro al Pooka che, per celebrarlo degnamente, fa sì che le more selvatiche colte dopo quel giorno siano tutte rovinate; insomma, trattasi di spirito animale maligno e dispettoso, da evitare assolutamente.



Il Changeling
Le fate irlandesi non sono buone madri, ecco perché spesso prendono i loro neonati (brutti sgorbi deformi, spesso zoppi e gobbi, grinzosi e malaticci) e li sostituiscono nella culla, rapendo qualche frugoletto umano dall’aspetto adorabile.
Il sostituto che viene così brutalmente abbandonato - chiamato changeling - non ha vita lunga, ma nei suoi pochi anni ne combina veramente parecchie. Innanzitutto frigna sempre, con acuti strilli insopportabili per le orecchie umane, ha sempre fame, ma soprattutto tende ad attirare la sfortuna più nera sulla casa dei malcapitati genitori forzatamente adottivi. Ma siccome “ogni scarrafone è bello a’ mamma (adottiva) sua”, anche ‘sto misero sgorbio qualche pregio ce l’ha: per esempio è bravissimo a fare musica e sa suonare magistralmente il flauto di latta (tin whistle) o la cornamusa irlandese (uilleann pipe).
Nel caso una mamma umana non fosse comunque interessata a questo antipatico scambio, è bene sottolineare che vale la regola “prevenire è meglio che curare”: quindi non lodare o apprezzare troppo il proprio pargolo, ma soprattutto proteggere la culla in cui dorme sospendendovi un paio di forbici aperte (o un crocifisso benedetto).
Se invece il fattaccio è già avvenuto, prima di chiamare un esorcista per liberarsi di questo povero diavolo, è possibile scacciarlo utilizzando diversi metodi: lo si può costringere con l’astuzia a rivelare la sua vera età, oppure gli si può far bere un tè a base di “digitalis”, che rivelerà la sua natura fatata e lo rispedirà tra i suoi simili.
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lunedì 5 gennaio 2015

Terzo incontro: La nascita di Roma

Ciao a tutti Piccoli Lettori!
Come sempre inseriamo nel nostro blog le letture che abbiamo fatto insieme durante l'ultimo incontro (quello del 13 dicembre, vi ricordate?). Avevamo parlato della nascita dell'antica Roma, vista attraverso gli occhi del guerriero Enea, in fuga da Troia oramai distrutta dall'esercito greco, e dagli occhi dei due gemelli, Romolo e Remo, salvati dalla lupa lungo il fiume Tevere.
Ecco a voi i due brani!

Enea Racconta
Mi feci dunque animo e presi il comando di quanti, scampati alla guerra di Troia e all'inganno del cavallo di legno, ora si affidavano a me con tanta fiducia per fuggire; ed io sentivo il peso di una grossa responsabilità. Ci mettemmo subito in cammino e raggiungemmo le pendici del monte Ida, dove ci accampammo e dove cominciammo ad abbattere alberi per costruirci le navi con cui saremmo potuti fuggire dalla città oramai in fiamme. Riuscimmo ad allestire venti navi e prendemmo il largo lasciando per sempre la nostra amata terra con le lacrime agli occhi; vedevamo scomparire piano piano all'orizzonte i porti, le rive, i campi su cui si erigeva Troia. Eravamo consapevoli di essere in balia del mare, e che non avremmo saputo fino all'ultimo che cosa il Fato ci avrebbe riservato. In mare trascorremmo diversi mesi, sempre serenamente: quando riuscivamo ci avvicinavamo alla costa, attraccavamo e scendevamo a terra per procurarci cibo e acqua; poi subito ripartivamo. Un giorno giungemmo in una terra senza nome, non sapevamo nemmeno bene fossimo: sapevamo solo che avremmo trovato prima o poi un posto dove stabilirci definitivamente. O almeno così gli dei mi avevano detto in sogno: mia madre Venere mi era apparsa, bellissima, e mi aveva sussurrato all'orecchio che io e i troiani superstiti eravamo destinati a fondare una città potente e longeva lungo il letto di un fiume azzurro. E che lì la gente di Troia avrebbe avuto la rivincita sui greci che avevano distrutto la loro città. Sull'isola dove eravamo approdati stavamo bene: gli abitanti del villaggio limitrofo ci avevano accolti volentieri e intanto la nostra vita si organizzava, seppure lentamente: si celebravano matrimoni, si costruivano le famiglie, coltivavamo i nostri campi, tanto che credemmo che forse era proprio quell'isola bellissima la nostra meta. Ma un giorno un infausto segnale ci fece comprendere che non sarebbe stata quella la nostra casa: si diffuse nel nostro piccolo villaggio una terribile pestilenza e un sole caldissimo cominciava a far seccare i nostri campi. Per mesi non piovette e molti dei miei compagni si ammalavano, oltre a rischiare di morire di fame. Mio padre Anchise si convinse che forse avevamo compiuto qualche gesto inviso agli Dei e per quello ora ci stavano punendo. Decidemmo allora di lasciare la bella isola su cui avevamo vissuto felici per qualche tempo e salpammo alla volta di Delo, l’isola dove si trovava il tempio del Dio Apollo e dove il suo sacerdote dava ai pellegrini il responso del Dio alle loro domande. Egli ci disse che gli dei ci avevano punito perché avevamo creduto che l’isola dove ci eravamo stabiliti fosse la nostra meta, ma così non doveva essere. Noi dovevamo raggiungere una terra, che i greci chiamavano con il nome di Esperia, molto bella e florida, e che solo lì ci saremmo potuti stabilire. Appreso finalmente il nostro destino partimmo da Delo alla ricerca dell’Esperia, o come la chiamavano i suoi abitanti, l’Italia. Viaggiammo, viaggiammo e ancora per mesi viaggiammo fin quando non avvistammo finalmente terra: Nettuno aveva fatto spirare per noi vento favorevole e aveva mantenuto le acque calme. Avvistai per primo tra i boschi uno scintillante fiume: era il Tevere. Intorno alle rive e nelle selve del retroterra canti e voli di uccelli mi rallegravano l’animo, oltre che l’azzurro cielo. Ordinai a tutte le navi di virare e di entrare nel letto del fiume. Finalmente ebbi la bellissima sensazione di essere giunto, dopo mesi di fatiche e di incredibili peripezie, a casa nostra.

(Brano riadattato da L. Canali, Canali racconta l'Eneide, Einaudi scuola)

La leggenda dei due gemelli e la fondazione di Roma
Amulio e Numitore erano i due principi di Alba Longa, la mitica città che fu fondata da Enea quando giunse nel Lazio dopo la lunghissima guerra di Troia. Essi erano i due figli dell’anziano re, il quale governava sulla città perché diretto discendente di Ascanio, il figlio di Enea. Quando l’anziano padre morì, il governo della città passo ai due fratelli; ma solo uno dei due poteva essere re: ne nacque una guerra. Alla fine Amulio fu sconfitto e Numitore divenne re di Alba Longa. Ma chiamò a vivere con sé alla corte reale anche il fratello Amulio, in quanto principe e suo consigliere. Tuttavia Amulio era ancora indispettito dalla sconfitta e dentro di sé covava forte rancore nei confronti del fratello. Così Amulio fece di nuovo guerra a Numitore e questa volta riuscì ad impossessarsi del trono di Alba Longa. Per paura che Numitore o i suoi eredi potessero un giorno rivendicare legittimamente il regno, obbligò la figlia di Numitore a divenire vestale, cioè una sacerdotessa della dea Vesta. Le vestali, secondo l’antica religione di Alba Longa non potevano sposarsi e quindi Amulio fu tranquillo che non sarebbe nato da lei nessun erede pronto a usurparlo.
Tuttavia accadde che Marte, il potentissimo dio della guerra si innamorò di Rea Silvia, la figlia di Numitore. I due innamorati si sposarono segretamente ed ebbero due figli, due gemelli, ai quali diede i nomi di Romolo e Remo. Scoperto il tradimento, Amulio infuriato ordinò che i neonati fossero subito uccisi. La guardia incaricata di portare via i due gemelli però non ebbe il coraggio di commettere un simile delitto, mise di nascosto i piccoli in una cesta e li affidò alla corrente del Tevere nella speranza che qualcuno li trovasse e si prendesse cura di loro. Lo stesso giorno, una lupa che era scesa al fiume per abbeverarsi nei pressi del Colle Palatino udì il vagito dei bimbi. Li portò a riva, li riscaldò e li sfamò con il suo latte. Dopo poco passò in quel luogo anche il pastore Faustolo che senza esitare prese i due piccoli gemelli e li portò a casa da sua moglie, la quale li crebbe come fossero figli suoi. .I due bambini crescevano forti e intelligenti: aiutavano la madre nelle faccende di casa e seguivano il padre nel lavoro dei campi. Tutto il villaggi li conosceva per la loro bravura e saggezza, tanto che i cittadini li elessero capi fidati del villaggio. Ma quello non era il destino di Romolo e Remo: erano i figli del Dio Marte e della Vestale Rea Silvia, discendente diretta del mitico Enea. Quando furono adulti, infatti, Faustolo svelò ai due gemelli il mistero della Loro origine: erano destinati a diventare i re di Alba longa! I due ragazzi si fecero forza e decisero di aiutare il Nonno Numitore a tornare a governare su Alba Longa: insieme riuscirono a usurpare Amulio e a ristabilire il vero re.

Romolo e Remo, intanto, decisero di fondare sul colle Palatino una nuova città. La fondazione di una nuova città aveva inizio con un rito che consisteva nel tracciare con l’aratro un solco quadrato, che doveva rappresentare il perimetro della futura città. Romolo e Remo, secondo la tradizione, consultarono il volo degli uccelli per sapere quale dei due, per volontà degli dei, dovesse compiere la cerimonia: Remo vide per primo sei avvoltoi solcare il cielo, ma Romolo ne vide ben dodici: tutti furono allora d’accordo che toccasse a Romolo tracciare il solco e dare il nome alla nuova città. Remo, però, livido di gelosia, osservava il fratello compire il rito di fondazione;ne era troppo invidioso che compì un atto fatale: oltrepassò il solco sacro che Romolo aveva appena tracciato, compiendo un gesto sacrilego, cioè contro la volontà degli dei. Saltando all'interno del quadrato tracciato nel terreno Remo esclamò verso il fratello: «Sono facili da espugnare, fratello, le mura della tua città!». Romolo, accecato dall'ira verso Remo che aveva compiuto un gesto contro le divinità, sfoderò la spada cacciò via il fratello. Rimase così unico re della nuova città, cui diede il nome di Roma. Secondo la tradizione, era il 21 aprile del 753 a.C.