domenica 30 novembre 2014

II Incontro: Attività - Scrivi un Racconto

Dopo la lettura di due brani tratti dall'Iliade e dall'Odissea, le storie della battaglia di Ilio (o Trova) e del viaggio di ritorno a casa di Odisseo (o Ulisse), i bambini erano invitati a produrre un racconto di loro fantasia che spiegasse cosa è successo agli altri eroi greci durante il loro ritorno a casa alla fine della decennale guerra. Il gruppo dei Titani (gruppo Giallo) ha scritto quattro piccoli racconti

Il ritorno di Aiace
Aiace era uno dei guerrieri che aveva partecipato alla guerra fra troiani e greci. Dopo ben dieci anni di guerra, sconfitti i troiani, Aiace salì finalmente sulla propria nave per fare ritorno a casa. Ma anche lui, come Ulisse, ci impiegò altri dieci anni. Achille, un altro guerriero greco, era suo amico, ma purtroppo morì nella guerra. Salito sulla sua nave, quindi, durante il viaggio di ritorno si addormentò profondamente; la nave venne trasportata dalla corrente non si sa dove e ad un certo punto si arene sula spiaggia di un'isoletta straniera dove si parlava una lingua chiamata cimcimp. Quando Aiace si svegliò non riuscì a capire dove si trovasse e guardando sulla sua mappa si rese conto che l'isola su cui era capitato non esisteva sulla mappa. Allora cominciò a pregare talmente tanto che un Dio chiamato Zeus scese dal cielo e gli indicò la via di casa. Alla fine Aiace riuscì finalmente a tornare a casa dove ritrovò sua moglie e i suoi figli, che felici lo abbracciarono. E vissero da allora felici e contenti.

Il viaggio di Diomede
Diomede salì sulla sua nave per ritornare a casa. Durante la navigazione vide in lontananza un enorme roccia su cui erano sedute delle sirene, impegnate nel loro bellissimo e dolcissimo canto. Diomede, seguendo le istruzioni di Ulisse, lo legò all'albero maestro della nave facendo in modo che le funi fossero strette a sufficienza. Però Diomede fu attirato dal canto delle sirene; così cadde dalla nave, proprio come era stato previsto dalle sirene stesse. Ulisse invece riuscì a rimane a bordo perché era stato ben legato all'albero dall'amico Diomede. Una volta scampato il pericolo delle sirene, infatti, prese la spada e tagliò le funi per liberarsi e riprendere il proprio viaggio.

Il ritorno di Menelao
C'era una volta un guerriero che si chiamava Menelao, ed era il più forte guerriero di tutta la Grecia. Terminata la guerra di Trova si imbarcò sulla sua nave per fare ritorno a casa, ma ci impiegò ben sei anni. Questo accadde perché durante il viaggio di ritorno si imbatte in una nave guidata da un guerriero troiano che lo riconobbe e tra i due scoppiò un'altra piccola guerra. Menelao riconobbe il troiano perché in passato durante la guerra lo aveva ingannato, ma ancora oggi non sappiamo il motivo dell'inganno.

Il viaggio di Enea e dei suoi guerrieri
Dopo la sconfitta di Trova, Enea e i suoi guerrieri decisero di salire su una nave e di dirigersi verso la Grecia. Durante il viaggio, però, il ma se divenne talmente burrascoso che la nave si rovesciò e tutti i guerrieri tranne Enea caddero in acqua e affogarono. Risalito sulla nave, Enea si dirige verso un'isola che vedeva all'orizzonte, ma nel tragitto il mare ancora in tempesta fa sbattere la nave contro gli scogli; rimasto a nuoto Enea raggiunse la spiaggia e rimase solo. Per fortuna arrivarono presto i rinforzi e un'altra nave di guerrieri lo soccorse. navigarono insieme per cinque giorni diretti verso casa, ma vi fu una nuova tempesta e le onde erano così alte che rovesciarono ancora la nave. Enea riuscì a salvarsi nuotando fino all'isola di Creta. Lì incontrò sua moglie che lo stava aspettando, ma dopo averlo salutato gli disse che loro figlio era partito per Andalo a cercare e non era ancora tornata; era disperata. Allora Enea e la moglie preparino il Dio Zeus che discese dal cielo e disse loro che il figlio si trovava proprio a Trova. Così Enea aiutato dal Dio raggiunse il figlio e insieme ritornarono a casa felici.

II Incontro: l'Iliade e l'Odissea

 Il pomo della discordia e il giudizio di Paride
Doveva essere un giorno felice. Si celebravano le nozze di una dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti a festeggiare gli sposi portando loro una grande
quantità di doni. La sala del banchetto splendeva di mille luci e sulla grande tavola brillavano le caraffe e le coppe preziose, colme di nettare e ambrosia; dei e dee chiacchieravano gaiamente. Volevano starsene tutti in pace e contenti; perciò al banchetto non era stata invitata Eris, l’imbronciata dea della discordia. Se compariva lei scoppiavano litigi furiosi e più nessuno aveva voglia di ridere e scherzare. Ma quella guastafeste riuscì ugualmente a rovinare ogni cosa. Nel bel mezzo del pranzo arrivò di corsa e fece rotolare sulla tavola una mela d’oro. Poi, ridendo malignamente, scappò via. Tutti – dei e dee – cercarono di afferrare la mela preziosa, se la strappavano di mano l’un l’altro, gridavano, litigavano. – Attenzione! – gridò a un certo punto qualcuno – Sul pomo c’è una scritta. – Cosa? – Dove? – Fate vedere. – Avanti, qualcuno legga cosa c’è scritto. – C’è scritto: “Alla più bella”. Allora Era, Atena e Afrodite si buttarono sulla mela d’oro. – A me, a me – gridavano dandosi gomitate e spintoni. – Spetta a me la mela d’oro. Sono io la più bella! – strillavano furiose pestandosi i piedi. – Sia Zeus, il padre di noi tutti, a decidere chi tra voi tre meriti il pomo d’oro – proposero gli altri dei. Ma Zeus, sentendo aria di grane a non finire, declinò l’incarico di giudice con un discorsetto che fu un capolavoro di diplomazia: – Non voglio essere io arbitro tra voi, perché voglio bene a tutte e tre e, se fosse possibile, vorrei vedervi tutte e tre vincitrici. Ma il pomo è uno solo, perciò una sola può ricevere il premio di bellezza. Io però non me la sento di giudicare, perché per me siete tutte e tre ugualmente belle. È meglio allora che Ermes vada sul monte Ida, in Asia Minore, a cercare il figliolo del re di Troia, e gli dica: “O Pàride, Zeus comanda che tu, che sei molto bello e ti intendi assai delle cose d’amore, giudichi tra queste dee qual è bellissima”. La prescelta avrà il pomo. Pàride vive come un montanaro, in una capanna, e porta al pascolo capre e buoi, ma è un ragazzo ammodo, è di sangue reale, e parente del nostro coppiere Ganimede: nessuno lo riterrebbe indegno di esaminarvi e di giudicare. […] Andate dunque, e le vinte non se la prendano con il giudice, non si sdegnino, non facciano del male a quel ragazzo. Bisogna che tra voi ne scelga una e non può sottrarsi a questo compito. Ermes, sempre impaziente, tagliò corto: – Su forza, andiamo subito dritto filato sul monte Ida in cerca di Pàride, e state tranquille: io lo conosco, è un ragazzo molto gentile e un vero intenditore di bellezza. Un’ingiustizia non la farebbe mai. – Ma vedo che siamo quasi arrivati: ecco là il monte Ida e anche il vostro giudice. – Era, aguzzando lo sguardo: – Sì, sì, lo vedo anch’io. Non è quello che esce dalla grotta spingendo i buoi dinanzi a sé? – È lui. Adesso posiamo i piedi a terra e camminiamo verso di lui per non spaventarlo volandogli addosso all’improvviso. Salve, mandriano. – Pàride rispose subito al saluto dello sconosciuto: – Salve a te, giovanotto che hai le ali ai piedi. Chi sei? Chi sono queste donne con te? Di così belle non ne ho mai viste su per queste montagne. – Non sono donne, Pàride. Tu vedi dinanzi a te le dee Era, Atena, Afrodite, e me che sono Ermes. Ci manda Zeus. Ma perché impallidisci? Non temere, non corri alcun rischio. Zeus ordina che tu giudichi qual è la più bella tra loro e a essa consegni in premio questo pomo d’oro. – O potente Ermes, ma come posso io, che sono un semplice mandriano, giudicare bellezze simili, di cui non ho mai visto l’uguale? Forse chi vive in città tra tante cose raffinate ed eleganti potrebbe fare da giudice, non io che so soltanto distinguere tra capra e capra qual è la più bella, o tra giovenca e giovenca. Queste tre dee sono tutte ugualmente bellissime. Se ne guardo una la trovo meravigliosa e se stacco gli occhi da lei e li rivolgo a un’altra, anche questa mi pare incantevole, come le altre due che le stanno vicino. Insomma, vorrei avere cento occhi per poterle rimirare a dovere, ma non potrei mai decidere chi tra loro è la più bella. E l’imbarazzo in cui mi trovo cresce, se penso che l’una è moglie di Zeus, l’altra è sua figlia, l’altra ancora è addirittura figlia dell’antico Urano, il Cielo. Anche per questo motivo, ti confesso, mi sembra che esprimere un giudizio sia cosa troppo rischiosa. – Che vuoi che ti dica – rispose Ermes. – Io so soltanto che non si può disubbidire al comando di Zeus e chela mela non può essere divisa. – Ho capito, ci proverò. Non posso fare altrimenti. – E Pàride prese la mela d’oro tra le mani, pensieroso. Allora Era gli si avvicinò e disse: – O Pàride, principe di Troia, se giudicherai me la più bella, ti renderòpadrone di tutta l’Asia e ricco più di qualsiasi altro uomo sulla terra. Dopo Era parlò Atena: – Guardami, figlio del re Priamo, e sappi che se darai a me la mela d’oro io ti renderòun guerriero invincibile, il più forte, ma anche il più saggio, di tutti gli uomini. Fu quindi la volta di Afrodite, che soavemente sussurrò: – Ascoltami, bel giovane, se darai a me il pomo della vittoria, io ti darò in moglie la più bella donna del mondo: Elena di Sparta, che è figlia di Leda e di Zeus stesso ed è bionda, bianca e delicata, bella e amorosa quanto me, parola di dea. – Sì, – ribatté Pàride – è la più bella donna del mondo, ma è anche moglie di Menelao! E non posso credere che abbandonerebbe il marito e la sua reggia, a Sparta, per seguire uno sconosciuto, un forestiero. – Ah, ah, ah! – gorgheggiò Afrodite – Come sei giovane e inesperto! So io come fare a convincerla… – E come farai? Voglio saperlo anch’io. – Dunque, caro ragazzo, tu andrai in Grecia e io ti darò il mio figlioletto Eros, il piccolo dio dell’amore, come compagno di viaggio. Quando sarai a Sparta, Eros, di nascosto, colpirà la bella Elena con una delle sue frecce facendola innamorare pazzamente di te. Io poi ti prometto la mia protezione, per sempre. – Me lo giuri? – gridò Paride. – Certo che sì. Afrodite giurò e Pàride le consegnò il pomo prezioso. Ma in questo modo si attirò l’odio delle altre dee, che si allontanarono complottando la rovina della sua città: Troia. Tempo dopo Pàride ottenne dal padre di essere inviato come ambasciatore a Sparta, dove regnavano Menelao ed Elena. Il principe di Troia fu accolto con tutti gli onori da Menelao e il suo arrivo venne annunciato da un’ancella alla regina: – Da una città lontana, di là dal mare, è giunto qui un giovane straniero. È bellissimo e indossa vesti meravigliose intessute d’oro e d’argento. Chiede di poterti offrire i doni che porta con sé. Elena, allora, indossò una tunica bianca e leggera, fittamente pieghettata, posò un diadema d’oro sui bei capelli lucenti d’olio profumato e andò incontro all’ospite. Quando la bella donna entrò nella sala del banchetto, a Pàride sembrò di vedere una dea. Non poteva staccare gli occhi da lei e ogni suo sorriso lo riempiva di felicità. – Non potrò mai amare altra donna che questa – pensava – e non avrò pace finché non la farò mia sposa. È questa la donna che Afrodite ha promesso di darmi e l’avrò. A ogni costo. La porterò con me a Troia e sarò felice con lei, per sempre. Mentre pensava queste cose non smetteva di lanciare a Elena sguardi appassionati, sospirando. Anche la regina lo guardava, di tanto in tanto, un po’ compiaciuta, un po’ imbarazzata. Quelle dolci occhiate resero Pàride sempre più ardito. Elena aveva appena posato sulla tavola il calice d’oro in cui aveva bevuto, che Pàride lo afferrò e se lo portò alla bocca posando le labbra dove lei aveva appena messo le sue, poi intinse un dito nel nero vino e tracciò sulla tavola le parole: – Ti amo, Elena. Preoccupatissima, Elena coprì la scritta con il suo tovagliolo e guardò il marito, timorosamente. Ma Menelao non si era accorto di nulla e continuava tranquillamente a mangiare, a bere, a rivolgere all’ospite domande sul suo Paese lontano. L’indomani, il re distratto partì per l’isola di Creta, lasciando sola con lo straniero la giovane moglie. Di nuovo Pàride dichiarò alla regina il suo amore: – Mai nessuno ti amerà quanto ti amo io. Parti con me e ti farò felice. Elena era affascinata dalla bellezza, dalla gentilezza e dalla devozione del giovane principe straniero, ma resisteva, perché sapeva che non era giusto abbandonare la casa, il marito e la figlioletta ancora piccola che aveva bisogno di lei. Perciò non rispondeva agli inviti di Paride ma neppure si allontanava da lui. Soltanto quando scese la notte si ritirò nella propria stanza, ma non riuscì a prendere sonno. Ormai Eros, il dio dell’amore, aveva acceso in lei la fiamma della passione. Appena chiudeva gli occhi, la regina innamorata rivedeva il bel volto del principe straniero, ne riudiva le tenere parole. La sua mente e il suo cuore non potevano staccarsi da lui. Prima che la luce dell’alba scivolasse nella stanza, Elena aveva preso la sua decisione: quella notte stessa avrebbe raggiunto Pàride nella sua nave e sarebbe fuggita con lui. Così fu.


Ulisse e Polifemo
Ulisse, re di Itaca, un’isola greca, nel suo pellegrinaggio con le sue dodici navi nel mare mediterraneo, si imbatté nelle ire di Zeus che aveva scatenato un’altra violenta tempesta ed Ulisse e i suoi uomini, furono talmente sballottati da perdere la nozione del tempo e non sapersi più orientare. Così, quando videro profilarsi una grande isola tutta verde cosparsa  di scogli ed insenature create da preistoriche colate laviche e con un vulcano sbruffante fuoco, fumo e lapilli incandescenti, ma  imbiancato di neve  sembrava bellissimo, in fondo si notavano dei greggi ben pasciuti, a questa vista fecero salti di gioia. Ma non sapevano di trovarsi in Sicilia, nella terra dei Ciclopi. Nell’isola di Sicilia, nei dintorni del vulcano Etna, vivevano sette fratelli ed erano tutti giganteschi e terribili. Di quattro si sapeva il nome: Bronte, Sperone, Arge e  Polifemo che era Il primogenito e il più mostruoso, egli in particolare aveva una simpatia per il fratellastro Bronte. Erano figli di Poseidone e appartenevano alla razza dei ciclopi, in particolare  avevano un unico grande occhio in mezzo alla fronte. Tutti vivevano di pastorizia, ed erano brutti rozzi e cattivi,e quando avvistavano dei vascelli all’orizzonte, si nascondevano spiandoli con il loro unico occhio, rosso di venature , occhi che sprigionavano odio e malvagità verso gli umani, e il solo pensiero di incontrarli metteva paura, quando i vascelli dei malcapitati si trovavano a tiro, li prendevano di mira scagliando loro pietre e grandi massi, ma a causa dell’unico occhio difficilmente mettevano a segno le loro mascalzonate, e quando ci riuscivano si eccitavano talmente da sbattere con tutta la loro forza sovrumana i pugni per terra , e tutto questo creava tremoli e boati in tutta l’isola. Un giorno Polifemo pascolava le sue greggi quando Ulisse e i compagni giungono alla sua enorme spelonca e, credendo nell’ospitalità del Ciclope, portarono in dono molto vino e rimangono ad attenderlo per favorire assieme al mostro i suoi viveri. Avevano appena radunato una decina di pecore, quando udirono dei ruggiti e un pesante calpestio che faceva tremare le rocce. Terrorizzati, si tuffarono in fondo alla caverna nascondendosi dietro un masso. Ed ecco entrare un gigante dall’aspetto spaventoso. Si accoccolò sulla soglia, gracchiando: «Venite qui, mie greggi. Venite da Polifemo per essere munte». Ulisse ebbe un sussulto. Aveva sentito parlare di Polifemo e dei ciclopi e sapeva che erano nei guai. Essi, infatti, non lavorano la terra “.. fidando negli dei immortali..”, non sanno navigare ,non vivono in gruppi più ampi del loro ristretto gruppo famigliare e “..ciascuno comanda sui figli e le mogli, incuranti gli uni degli altri.. “..costoro non hanno assemblee di consiglio, né leggi..”,  Conclusa la mungitura, il Ciclope accese il fuoco e, solo quando le fiamme cominciarono a farsi alte e brillanti, notò i dodici uomini nascosti dietro la roccia. Emise un assordante ruggito di rabbia. «Stranieri!» ringhiò. «Ladri di pecore! Vi farò a pezzi e vi mangerò per cena!». Qualcuno dallo spavento morì, Un attimo dopo afferrò due uomini e se li cacciò in bocca, stritolandoli trai denti aguzzi. Poi, dopo aver rotolato un grande macigno all’ingresso della caverna, si distese a dormire. Mentre il suo russare echeggiava tra le pareti, Ulisse tentò di escogitare un piano. Ma non gli venne in mente nulla. Così, la mattina dopo, il gigante prese altri due uomini e li divorò come aveva fatto con gli altri. Dopo di che uscì con le pecore, rotolandosi il macigno alle spalle. Erano in trappola! Ulisse notò un tronco buttato in terra. Gli diede un’idea. Lo appuntì fino a quando il tronco divenne una lunga pertica appuntita. Lo stavano nascondendo in un angolo quando Polifemo fu di ritorno. Come la sera prima, munse le pecore e sbranò altri due uomini. Poi fece un rutto poderoso e dopo aver rotolato il macigno all’imbocco si distese per terra. Ma questa volta non si addormentò subito e Ulisse saltò fuori a parlargli. «Ciclope, ei Ciclope Forse gradiresti un po’ di buon vino color rubino, dopo un simile pasto a base di carne, sappi che il vino rosso ben si abbina ai grandi bocconi di carne grande Ciclope!»(e qui che salta alla memoria il primo sommelier della storia) Così saprai che sorta di bevanda è questa che la nave nostra teneva in serbo gli disse timidamente Ulisse con il nodo alla gola per la perdita dei suoi uomini. E Polifemo gli rispose “Come osi tu di consigliarmi quel che devo fare, e chi sei tu?” E Ulisse rispose ben consapevole di non dover dire la verità,  IL mio nome è “Nessuno” e sono il condottiero di questi sventurati uomini che per sbaglio sono venuti a disturbarti” Polifemo per un attimo esitò, e rimase diffidente verso questa confidenza Ora il fuoco emanava un bel tepore. Polifemo vi si distese accanto e tese le sue enormi mani per scaldarle. « Ben fatto» disse. « Voi uomini sarete delle piccole, insignificanti creature, ma avete acceso un bel fuoco». Ulisse finse di essergli grato. « Vogliamo solo servirti, grande Polifemo» disse al Ciclope.. Egli prese la ciotola e bevve fino in fondo: e gustò visibilmente la dolce bevanda, e me ne chiedeva ancora, una seconda volta: ‘Dammene ancora, da bravo. E dimmi di nuovo il tuo nome subito, ora. Voglio fartelo, il dono ospitale: e tu ne sarai contento. Anche ai Ciclopi produce la terra vino da grossi grappoli: ma questo è uno zampillo di nettare e d’ambrosia.  ”Ciclope, mi chiedi di nuovo il nome famoso, ed io te lo dirò: tu dammi, come hai promesso, il dono ospitale. Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e Nessuno mi chiamano tutti gli altri compagni e sono il condottiero di questi marinai che si sono persi a causa della tempesta. ” “Ebbene (rispose il ciclope) il dono che voglio farti e quello che ti mangerò per ultimo”. Quando il mostro crollò dopo essersi ubriacato bevendo il dolce nettare che aveva portato Ulisse, sembrava essere scesa la quiete nella spelonca, allora Ulisse ed i suoi uomini presero il grosso tronco lo arroventarono nel fuoco e quando era ben arroventato lo presero tutti insieme e lo conficcarono nell’occhio del ciclope, un urlo terribile uscì dalla gola del mostro, che fece tremare tutta la montagna, Si premette le mani sull’occhio, gridando e ruggendo, tanto che i Greci erano assordati dal rumore. « Perché è così buio?» muggì Polifemo. « Non vedo più niente!» Cominciò a tastare le pareti e il pavimento della caverna, cercando Ulisse e i suoi compagni. Le sue immense dita continuavano a percuotere il terreno vicino a loro: erano abbastanza grosse per schiacciarli. Ulisse corse verso il mucchio di pelli di pecora. Velocemente ne lanciò una a ciascun compagno. « Copritevi con queste, e mettetevi a quattro zampe!» esclamò. « Poi raggiungete carponi l’ingresso della caverna». Svelti i Greci fecero quanto Ulisse aveva detto. Improvvisamente Ulisse sentì le dita del Ciclope tastare la pelle di pecora che gli copriva il dorso: avevano un peso colossale. Polifemo toccò ancora una pelle di pecora, poi un’altra e un’altra. Sotto ciascuna di esse c’era un Greco. « Sono scappati» ruggì. « Quegli astuti furfanti! Mi hanno accecato e sono scappati. Sono rimaste solo le pecore nella caverna». Quanto più velocemente potevano, Ulisse e i suoi compagni uscirono carponi dalla grotta. Una volta fuori, si tolsero le pelli di pecora che avevano salvato loro la vita e corsero verso la spiaggia. « La nave è troppo danneggiata per salpare» disse in fretta Ulisse. « Ma le scialuppe sono a posto. Presto! Mettiamole in acqua e allontaniamoci dall’isola».  Ne frattempo i fratelli di Polifemo sentendo quelle spaventose urla si avvicinarono per poter capire cosa era successo,ma conoscendo la irascibilità di Polifemo nessuno aveva il coraggio di chiedergli spiegazioni all’or quando  Bronte ne ebbe il coraggio e domandò”Polifemo cos’è successo ? perche gridi ed urli cosi forte?” e Polifemo rispose aah è stato Nessuno.” I ciclopi si guardavano l’un l’altro non capendo cosa lui volesse dire, e di nuovo Bronte dietro consiglio degli altri Ciclopi domandò:”Polifemo perche gridi così forte e  cosa ti è successo?”e Polifemo Rispose” aah ulisse-sfugge-alle-ire-di-polifemonessuno è stato  Nessuno mi ha accecato, e Nessuno con i suoi uomini è scappato via,Nessuno amici mi uccide con l’inganno, non con la forza!..”, A questo punto i ciclopi si sentirono presi in giro, gli voltarono le spalle e se ne andarono via. Appena fuori dalla grotta, il gruppo dei sei corse precipitosamente verso la nave, dove l’equipaggio aveva già preparato tutto per la partenza. Aiutandosi con la vela e con i remi, in breve tempo le navi si allontanarono dalla costa

sabato 29 novembre 2014

Hercules - Il film

Carissimi Lettori,
come promesso al gruppo dei Titani durante lo scorso incontro, vi alleghiamo il Link per vedere il bellissimo CARTONE ANIMATO della Walt Disney HERCULES!
Vi basta Cliccare sul titolo del film e verrete indirizzati immediatamente alla pagina dove visualizzarlo (il video è verso il fondo della pagina: "Guarda il film completo").
Buona visione!!!


HERCULES - WALT DISNEY
(cliccare sul titolo per vedere il film)

venerdì 28 novembre 2014

Consigli Letterari

Nostri Carissimi Lettori Piccolini,
Vi è piaciuto il primo incontro di questo secondo ciclo di Piccoli Lettori Crescono? Siiiiiii, certo che sì!! :) Ricapitolando che cosa abbiamo letto insieme, ci è venuto in mente di segnalarvi qualche libro da leggere di Miti greci per bambini... e dato che tra poco sarà Natale, perché non inserirne uno nella letterina a Babbo Natale?
Ecco a voi i libri che ci sono sembrati meritevoli di essere consigliati:

L. Mattia, A. Pavignano, Miti greci. da Crono ai figli di Zeus, La nuova frontiera Junior, 2013
(questo riassume la Teogonia, cioè la nascita degli dei. Ne abbiamo letto una parte insieme, ricordate?)

H. Amery, Miti greci per bambini, Usborne publishing, 2012

M. Bogliolo, Storie illustrate dei miti greci, Usborne publishing, 2013

S. Pirotta, Ai piedi dell'Olimpo. Miti greci, Einaudi Ragazzi, 2005

Ovviamente trovate tanti altri libri di miti greci per ragazzi nella nostra Biblioteca civica, nella sezione, appunto, "ragazzi". Vi basta recarvi in orario di apertura e chiedere alla nostra bibliotecaria Patrizia di consigliarvi una lettura divertente sui temi che abbiamo affrontato insieme!
Ricordate che dopo ogni incontro pubblicheremo qui sul nostro blog tutte le letture che faremo insieme durante gli incontri e  una piccola bibliografia di libri sull'argomento, come questa qui. 

Vi aspettiamo al prossimo incontro! Un Abbraccio,
Le vostre """"Maestre"""

martedì 18 novembre 2014

I Incontro: La nascita degli dei e i loro racconti

La parola “Mito” deriva dal greco e significa propriamente parola, racconto; sta a indicare la narrazione di particolari gesta compiute da dei, semidei, eroi e mostri. Il mito fu inventato degli uomini per spiegare avvenimenti che da soli e con il ragionamento non potevano spiegarsi: come è nato il mondo? da dove derivano gli uomini? esiste nell'universo qualche essere vivente oltre a noi? e ancora: da dove derivano i fenomeni meteorologici, e l'alternanza delle stagioni? Il mito cerca di rispondere alle grandi domande che gli uomini si pongono tramite un racconto di tipo fantastico
IMPORTANTE!! Ciò che si racconta nei miti non sono fatti avvenuti realmente, ma sono avvenimenti frutto della fantasia degli uomini, esattamente come le fiabe che mamma e papà vi leggono prima di andare a dormire. 

-          La Teogonia (La nascita degli dei maggiori)
All'inizio di tutte le cose, quando ancora il mondo, e l’universo e tutto ciò che oggi esiste ancora non esistevano, vi erano solo tre grandi divinità: Gaia, la terra, Chaos, ed Eros, l’amore. Grazie all'amore, un giorno di mille milioni di anni fa, Gaia e Chaos si unirono, si mescolarono e dalla loro mescolanza nacque Urano, il cielo stellato, che con il suo azzurro mantello avvolgeva Gaia e la stringeva tra le sue braccia. Dal Caos e dalla Terra, l’Amore fece sorgere le alte e verdi montagne popolate dalle creature dei boschi e il profondo e nero mare, la casa di tutti i pesci e di tutte le creature acquatiche leggendarie. Fu la volta di Urano: quando Cielo e Terra si unirono furono creati quegli esseri mitologici e mostruosi che sono i Titani, giganti pericolosissimi, e i Centimani creature che avevano cinquanta teste e cento braccia. Ma non furono gli unici a essere generati: da Gaia e Urano nacque anche Crono, il Tempo. Ma Urano, spaventato e insieme invidioso della potenza che i suoi figli avevano, temeva che un giorno sarebbe stato da loro spodestato dal trono forte e allora decise di rinchiudere tutti i suoi figli nella sua enorme pancia: da lì non sarebbero mai riusciti a fuggire. Gaia disperata cercò aiuto, ma nessun altro dio poteva aiutarla; così cercò di raggiungere i figli e quando trovò in un angolo nascosto Crono gli disse: “devi aiutare i tuoi fratelli Titani e Centimani ad uscire dalla pancia di Urano: solo così sarete liberi e potrete dare vita all'universo. Questo è il vostro destino”. Allora Crono, raccolto tutto il suo coraggio riuscì a tagliare la pancia di Urano e uscirne. Ferito Urano cadde dal cielo fino nelle profonde acque di Oceano e sprofondando il suo corpo produsse una schiuma bellissima e bianchissima, come quella che nasce dalle onde che si rifrangono sulla spiaggia. Dalla spuma del mare nacque la bellissima dea Afrodite, protettrice della bellezza e dell’amore. Liberata tutta la sua famiglia dalla tirannia di Urano, Crono sposò la dea Rea e dai lei ebbe molti figli: Demetra, la dea protettrice dei boschi e della caccia, Poseidone il re dei mari e di tutte le acque, Ade, il dio che governa gli inferi, e Zeus, il più coraggioso e forte di tutti i fratelli. Ma purtroppo anche Crono cominciò a temere la forza dei figli e che un giorno potessero ucciderlo. Così, esattamente come aveva fatto il padre con lui, inghiottì uno ad uno gli dei e li tenne nascosti nella sua pancia. Solo Zeus, ancora in fasce, fu salvato dalla madre Rea. Ella lo portò dalla nonna Gaia e lo face nascondere tra le sue enormi braccia; intanto, per ingannare Crono prese una grande e pesante pietra e lo avvolse con stole e coperte, come se fosse un neonato; porse la pietra a Crono che, scambiandola per il figlio Zeus, la inghiottì in un sol boccone. Gli anni passavano e Zeus cresceva sempre più forte insieme alla nonna Gaia; ben presto gli fu rivelato cosa era accaduto ai suoi fratelli più grandi. Zeus allora realizzò proprio ciò che Crono aveva temuto: combatté contro di lui e vincente liberò i fratelli dalla prigionia a cui erano costretti da anni. I Ciclopi e gli altri dei, felici e grati a Zeus per quello che aveva fatto lo nominarono padre degli dei e gli donarono la folgore fiammeggiante di cui solo lui sarebbe stato padrone. Da quel momento gli dei si stabilirono sotto la guida del possente Zeus sul monte Olimpo e lì vissero governando e popolando la terra.

Orfeo ed Euridice
Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, che non aveva eguali tra uomini e dei era figlio di Eagro, re della Tracia e della musa. Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla: divenne talmente abile nel suonarla che al suo suono persino l’acqua del fiume smetteva di scorre per non fare rumore e disturbare la soave melodia, persino le belve feroci si calmavano e andavano ad ascoltare la dolce musica che Orfeo suonava. Tutte le creature erano innamorate di Orfeo e della sua musica, ma lui aveva occhi per una sola donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride. Presto Orfeo ed Euridice, innamorati, si sposarono. Ma il fato però non aveva previsto per loro un amore duraturo: un giorno la bellezza di Euridice fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò di portarla via con sé. La fanciulla, spaventata, per sfuggire alle sue insistenze e di raggiungere il marito Orfeo si mise a correre più veloce che poteva, ma, nella foga, calpestò nell’erba un serpente velenosissimo, che la morse e che purtroppo la uccise. Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa, decise di scendere nell'Ade per cercare di riportarla con sé nel regno dei vivi. Convinse con la sua musica Caronte, in guardiano del fiume dei morti, il traghettatore delle anime verso l’Ade, a portarlo sull'altra riva dello Stige; dopo mille disavventure riuscì finalmente a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e la sua solitudine: le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione, ma nello stesso tempo bellissime e soavi, che gli stessi signori degli inferi si commossero e gli consentirono di riabbracciare Euridice. Gli fu concesso di riportarla con sé sulla terra, ma ad una sola condizione: durante il tragitto verso casa Orfeo non avrebbe mai dovuto guardare in volto la sua sposa, solo prenderla per mano e, precedendola, condurla sulla terra. Solo una volta giunti alla luce del sole si sarebbero potuti guardare in volto. Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce. Durante il viaggio, però, un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente pensando di condurre per mano un'ombra e non Euridice. Dimenticando così la promessa fatta si voltò a guardarla: nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice, la sua amata svanì nel nulla.

Il mito di Dafne e Apollo
Dafne, figlia e sacerdotessa di Gaia, la Madre Terra, e del fiume, era una giovane ninfa che viveva serena nei boschi. La leggenda Racconta che un giorno Apollo ed Eros discutevano delle proprie bravure e dei propri meriti; Apollo raccontava di essere stato capace, a soli quattro anni, di uccidere con una sola freccia il terribile ed enorme Serpente Pitone. Eros, incredulo, lo prendeva in giro, affermando che nessuno sarebbe stato capace di compiere quelle gesta e che Apollo stava mentendo. Ma Apollo ribatté che era invece Eros stesso a non aver mai compiuto azioni degne di gloria. Così  Il dio dell’amore, profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel cuore di Dafne, e un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo. Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, perchè era talmente grande l’amore che ardeva nel suo cuore che ogni minuto lontano da lei era una tremenda sofferenza. Alla fine riuscì a trovarla ma Dafne, appena lo vide, scappò impaurita: contro di lei Eros aveva scagliata la freccia che fa respingere l’amore. A nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla. Dafne, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, in quanto Apollo la incalzava sempre più da vicino, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste della figlia, inziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici e il suo delicato volto svaniva tra le fronde dell'albero. Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte albero che prese il nome di Lauro.

Il mito di Aracne
Aracne era una fanciulla che viveva a Colofone, nella Lidia, città famosa per le sue belle stoffe color porpora, insieme a suo padre Idmone, un tintore. La fanciulla era conosciuta da tutti gli abitanti della città per la sua abilità nel tessere delle magnifiche tele: venivano considerate da tutti dei doni del cielo e degli dei tanto che erano belle e realistiche. Commercianti e venditori giungevano da ogni angolo della Grecia per ammirare e acquistare le sue magnifiche stoffe. Aracne, consapevole del proprio talento di tessitrice, presa dall'orgoglio e dal successo che riscuoteva, cominciava a divenire impudente, ed un giorno si vantò addirittura di essere più brava della stessa Dea Atena, famosa anche lei per le sue abilità di tessitrice. “Le mie stoffe sono talmente belle, e io talmente brava a tessere che persino la dea Atena, gareggiando con me in bravura, ne uscirebbe sconfitta!”. Udite queste parole Atena si adirò moltissimo: come poteva una comune mortale porsi in competizione con un dio, e inoltre, dichiararsi migliore di esso? Così Atena scese sulla terra e si presentò ad Aracne sotto le spoglie di una vecchia, la quale suggeriva alla giovane Aracne di ritirare la sfida e le parole dirette alla dea, accontentandosi di essere la migliore tessitrice tra gli umani. “La dea Atena non accetterebbe di gareggiare con me perché avrebbe troppo di timore di essere sconfitta”. A queste parole, la dea si rivelò in tutta la sua grandezza e dichiarò aperta la sfida. Una di fronte all'altra Atena e Aracne iniziarono a tessere le loro tele e via via che le matasse si dipanavano apparivano le scene che le stesse avevano deciso di rappresentare: nella tela di Atena erano rappresentate le grandi imprese compiute dalla dea e i poteri divini che le erano propri; Aracne invece, raffigurava gli amori di alcuni dei, le loro colpe e i loro inganni. Quando le tele furono completate e messe l'una di fronte all'altra, Atena dovette ammettere che il lavoro della sua rivale non aveva eguali: i personaggi che erano rappresentati sembrava che balzassero fuori dalla tela per compiere le imprese rappresentate. Atena, non tollerando l'evidente sconfitta, afferrò la tela della rivale riducendola in mille pezzi. Aracne, sconvolta dalla reazione della dea, scappò via, ma Atena la raggiunse e le disse: “se credi di essere addirittura migliore di una dea, e se ami così tanto tessere magnifiche stoffe, io ti condanno a tessere per tutta la vita appesa ai rami degli alberi”. Allora Aracne fu trasformata in un ragno.