Come sempre inseriamo nel nostro blog le letture che abbiamo fatto insieme durante l'ultimo incontro (quello del 13 dicembre, vi ricordate?). Avevamo parlato della nascita dell'antica Roma, vista attraverso gli occhi del guerriero Enea, in fuga da Troia oramai distrutta dall'esercito greco, e dagli occhi dei due gemelli, Romolo e Remo, salvati dalla lupa lungo il fiume Tevere.
Ecco a voi i due brani!
Enea Racconta
Mi feci dunque animo e presi il comando
di quanti, scampati alla guerra di Troia e all'inganno del cavallo di legno,
ora si affidavano a me con tanta fiducia per fuggire; ed io sentivo il peso di
una grossa responsabilità. Ci mettemmo subito in cammino e raggiungemmo le
pendici del monte Ida, dove ci accampammo e dove cominciammo ad abbattere
alberi per costruirci le navi con cui saremmo potuti fuggire dalla città oramai
in fiamme. Riuscimmo ad allestire venti navi e prendemmo il largo lasciando per
sempre la nostra amata terra con le lacrime agli occhi; vedevamo scomparire
piano piano all'orizzonte i porti, le rive, i campi su cui si erigeva Troia.
Eravamo consapevoli di essere in balia del mare, e che non avremmo saputo fino
all'ultimo che cosa il Fato ci avrebbe riservato. In mare trascorremmo diversi
mesi, sempre serenamente: quando riuscivamo ci avvicinavamo alla costa,
attraccavamo e scendevamo a terra per procurarci cibo e acqua; poi subito
ripartivamo. Un giorno giungemmo in una terra senza nome, non sapevamo nemmeno
bene fossimo: sapevamo solo che avremmo trovato prima o poi un posto dove
stabilirci definitivamente. O almeno così gli dei mi avevano detto in sogno:
mia madre Venere mi era apparsa, bellissima, e mi aveva sussurrato all'orecchio
che io e i troiani superstiti eravamo destinati a fondare una città potente e
longeva lungo il letto di un fiume azzurro. E che lì la gente di Troia avrebbe
avuto la rivincita sui greci che avevano distrutto la loro città. Sull'isola
dove eravamo approdati stavamo bene: gli abitanti del villaggio limitrofo ci
avevano accolti volentieri e intanto la nostra vita si organizzava, seppure
lentamente: si celebravano matrimoni, si costruivano le famiglie, coltivavamo i
nostri campi, tanto che credemmo che forse era proprio quell'isola bellissima
la nostra meta. Ma un giorno un infausto segnale ci fece comprendere che non
sarebbe stata quella la nostra casa: si diffuse nel nostro piccolo villaggio
una terribile pestilenza e un sole caldissimo cominciava a far seccare i nostri
campi. Per mesi non piovette e molti dei miei compagni si ammalavano, oltre a
rischiare di morire di fame. Mio padre Anchise si convinse che forse avevamo
compiuto qualche gesto inviso agli Dei e per quello ora ci stavano punendo.
Decidemmo allora di lasciare la bella isola su cui avevamo vissuto felici per
qualche tempo e salpammo alla volta di Delo, l’isola dove si trovava il tempio
del Dio Apollo e dove il suo sacerdote dava ai pellegrini il responso del Dio
alle loro domande. Egli ci disse che gli dei ci avevano punito perché avevamo
creduto che l’isola dove ci eravamo stabiliti fosse la nostra meta, ma così non
doveva essere. Noi dovevamo raggiungere una terra, che i greci chiamavano con
il nome di Esperia, molto bella e florida, e che solo lì ci saremmo potuti
stabilire. Appreso finalmente il nostro destino partimmo da Delo alla ricerca
dell’Esperia, o come la chiamavano i suoi abitanti, l’Italia. Viaggiammo,
viaggiammo e ancora per mesi viaggiammo fin quando non avvistammo finalmente
terra: Nettuno aveva fatto spirare per noi vento favorevole e aveva mantenuto
le acque calme. Avvistai per primo tra i boschi uno scintillante fiume: era il
Tevere. Intorno alle rive e nelle selve del retroterra canti e voli di uccelli
mi rallegravano l’animo, oltre che l’azzurro cielo. Ordinai a tutte le navi di
virare e di entrare nel letto del fiume. Finalmente ebbi la bellissima
sensazione di essere giunto, dopo mesi di fatiche e di incredibili peripezie, a
casa nostra.
(Brano riadattato da L. Canali, Canali racconta l'Eneide, Einaudi scuola)
La leggenda dei due gemelli e la fondazione di Roma
Amulio e Numitore erano i due principi
di Alba Longa, la mitica città che fu fondata da Enea quando giunse nel Lazio
dopo la lunghissima guerra di Troia. Essi erano i due figli dell’anziano re, il
quale governava sulla città perché diretto discendente di Ascanio, il figlio di
Enea. Quando l’anziano padre morì, il governo della città passo ai due
fratelli; ma solo uno dei due poteva essere re: ne nacque una guerra. Alla fine
Amulio fu sconfitto e Numitore divenne re di Alba Longa. Ma chiamò a vivere con
sé alla corte reale anche il fratello Amulio, in quanto principe e suo
consigliere. Tuttavia Amulio era ancora indispettito dalla sconfitta e dentro
di sé covava forte rancore nei confronti del fratello. Così Amulio fece di
nuovo guerra a Numitore e questa volta riuscì ad impossessarsi del trono di
Alba Longa. Per paura che Numitore o i suoi eredi potessero un giorno
rivendicare legittimamente il regno, obbligò la figlia di Numitore a divenire
vestale, cioè una sacerdotessa della dea Vesta. Le vestali, secondo l’antica
religione di Alba Longa non potevano sposarsi e quindi Amulio fu tranquillo che
non sarebbe nato da lei nessun erede pronto a usurparlo.
Tuttavia accadde che Marte, il
potentissimo dio della guerra si innamorò di Rea Silvia, la figlia di Numitore.
I due innamorati si sposarono segretamente ed ebbero due figli, due gemelli, ai
quali diede i nomi di Romolo e Remo. Scoperto il tradimento, Amulio infuriato
ordinò che i neonati fossero subito uccisi. La guardia incaricata di portare
via i due gemelli però non ebbe il coraggio di commettere un simile delitto,
mise di nascosto i piccoli in una cesta e li affidò alla corrente del Tevere
nella speranza che qualcuno li trovasse e si prendesse cura di loro. Lo stesso
giorno, una lupa che era scesa al fiume per abbeverarsi nei pressi del Colle
Palatino udì il vagito dei bimbi. Li portò a riva, li riscaldò e li sfamò con
il suo latte. Dopo poco passò in quel luogo anche il pastore Faustolo che senza
esitare prese i due piccoli gemelli e li portò a casa da sua moglie, la quale
li crebbe come fossero figli suoi. .I due bambini crescevano forti e
intelligenti: aiutavano la madre nelle faccende di casa e seguivano il padre
nel lavoro dei campi. Tutto il villaggi li conosceva per la loro bravura e
saggezza, tanto che i cittadini li elessero capi fidati del villaggio. Ma
quello non era il destino di Romolo e Remo: erano i figli del Dio Marte e della Vestale Rea Silvia, discendente diretta del mitico Enea. Quando furono adulti,
infatti, Faustolo svelò ai due gemelli il mistero della Loro origine: erano
destinati a diventare i re di Alba longa! I due ragazzi si fecero forza e
decisero di aiutare il Nonno Numitore a tornare a governare su Alba Longa:
insieme riuscirono a usurpare Amulio e a ristabilire il vero re.
Romolo e Remo, intanto, decisero di
fondare sul colle Palatino una nuova città. La fondazione di una nuova città
aveva inizio con un rito che consisteva nel tracciare con l’aratro un solco
quadrato, che doveva rappresentare il perimetro della futura città. Romolo e
Remo, secondo la tradizione, consultarono il volo degli uccelli per sapere
quale dei due, per volontà degli dei, dovesse compiere la cerimonia: Remo vide
per primo sei avvoltoi solcare il cielo, ma Romolo ne vide ben dodici: tutti
furono allora d’accordo che toccasse a Romolo tracciare il solco e dare il nome
alla nuova città. Remo, però, livido di gelosia, osservava il fratello compire
il rito di fondazione;ne era troppo invidioso che compì un atto fatale:
oltrepassò il solco sacro che Romolo aveva appena tracciato, compiendo un gesto
sacrilego, cioè contro la volontà degli dei. Saltando all'interno del quadrato
tracciato nel terreno Remo esclamò verso il fratello: «Sono facili da
espugnare, fratello, le mura della tua città!». Romolo, accecato dall'ira verso
Remo che aveva compiuto un gesto contro le divinità, sfoderò la spada cacciò
via il fratello. Rimase così unico re della nuova città, cui diede il nome di
Roma. Secondo la tradizione, era il 21 aprile del 753 a.C.
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