domenica 30 novembre 2014

II Incontro: l'Iliade e l'Odissea

 Il pomo della discordia e il giudizio di Paride
Doveva essere un giorno felice. Si celebravano le nozze di una dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti a festeggiare gli sposi portando loro una grande
quantità di doni. La sala del banchetto splendeva di mille luci e sulla grande tavola brillavano le caraffe e le coppe preziose, colme di nettare e ambrosia; dei e dee chiacchieravano gaiamente. Volevano starsene tutti in pace e contenti; perciò al banchetto non era stata invitata Eris, l’imbronciata dea della discordia. Se compariva lei scoppiavano litigi furiosi e più nessuno aveva voglia di ridere e scherzare. Ma quella guastafeste riuscì ugualmente a rovinare ogni cosa. Nel bel mezzo del pranzo arrivò di corsa e fece rotolare sulla tavola una mela d’oro. Poi, ridendo malignamente, scappò via. Tutti – dei e dee – cercarono di afferrare la mela preziosa, se la strappavano di mano l’un l’altro, gridavano, litigavano. – Attenzione! – gridò a un certo punto qualcuno – Sul pomo c’è una scritta. – Cosa? – Dove? – Fate vedere. – Avanti, qualcuno legga cosa c’è scritto. – C’è scritto: “Alla più bella”. Allora Era, Atena e Afrodite si buttarono sulla mela d’oro. – A me, a me – gridavano dandosi gomitate e spintoni. – Spetta a me la mela d’oro. Sono io la più bella! – strillavano furiose pestandosi i piedi. – Sia Zeus, il padre di noi tutti, a decidere chi tra voi tre meriti il pomo d’oro – proposero gli altri dei. Ma Zeus, sentendo aria di grane a non finire, declinò l’incarico di giudice con un discorsetto che fu un capolavoro di diplomazia: – Non voglio essere io arbitro tra voi, perché voglio bene a tutte e tre e, se fosse possibile, vorrei vedervi tutte e tre vincitrici. Ma il pomo è uno solo, perciò una sola può ricevere il premio di bellezza. Io però non me la sento di giudicare, perché per me siete tutte e tre ugualmente belle. È meglio allora che Ermes vada sul monte Ida, in Asia Minore, a cercare il figliolo del re di Troia, e gli dica: “O Pàride, Zeus comanda che tu, che sei molto bello e ti intendi assai delle cose d’amore, giudichi tra queste dee qual è bellissima”. La prescelta avrà il pomo. Pàride vive come un montanaro, in una capanna, e porta al pascolo capre e buoi, ma è un ragazzo ammodo, è di sangue reale, e parente del nostro coppiere Ganimede: nessuno lo riterrebbe indegno di esaminarvi e di giudicare. […] Andate dunque, e le vinte non se la prendano con il giudice, non si sdegnino, non facciano del male a quel ragazzo. Bisogna che tra voi ne scelga una e non può sottrarsi a questo compito. Ermes, sempre impaziente, tagliò corto: – Su forza, andiamo subito dritto filato sul monte Ida in cerca di Pàride, e state tranquille: io lo conosco, è un ragazzo molto gentile e un vero intenditore di bellezza. Un’ingiustizia non la farebbe mai. – Ma vedo che siamo quasi arrivati: ecco là il monte Ida e anche il vostro giudice. – Era, aguzzando lo sguardo: – Sì, sì, lo vedo anch’io. Non è quello che esce dalla grotta spingendo i buoi dinanzi a sé? – È lui. Adesso posiamo i piedi a terra e camminiamo verso di lui per non spaventarlo volandogli addosso all’improvviso. Salve, mandriano. – Pàride rispose subito al saluto dello sconosciuto: – Salve a te, giovanotto che hai le ali ai piedi. Chi sei? Chi sono queste donne con te? Di così belle non ne ho mai viste su per queste montagne. – Non sono donne, Pàride. Tu vedi dinanzi a te le dee Era, Atena, Afrodite, e me che sono Ermes. Ci manda Zeus. Ma perché impallidisci? Non temere, non corri alcun rischio. Zeus ordina che tu giudichi qual è la più bella tra loro e a essa consegni in premio questo pomo d’oro. – O potente Ermes, ma come posso io, che sono un semplice mandriano, giudicare bellezze simili, di cui non ho mai visto l’uguale? Forse chi vive in città tra tante cose raffinate ed eleganti potrebbe fare da giudice, non io che so soltanto distinguere tra capra e capra qual è la più bella, o tra giovenca e giovenca. Queste tre dee sono tutte ugualmente bellissime. Se ne guardo una la trovo meravigliosa e se stacco gli occhi da lei e li rivolgo a un’altra, anche questa mi pare incantevole, come le altre due che le stanno vicino. Insomma, vorrei avere cento occhi per poterle rimirare a dovere, ma non potrei mai decidere chi tra loro è la più bella. E l’imbarazzo in cui mi trovo cresce, se penso che l’una è moglie di Zeus, l’altra è sua figlia, l’altra ancora è addirittura figlia dell’antico Urano, il Cielo. Anche per questo motivo, ti confesso, mi sembra che esprimere un giudizio sia cosa troppo rischiosa. – Che vuoi che ti dica – rispose Ermes. – Io so soltanto che non si può disubbidire al comando di Zeus e chela mela non può essere divisa. – Ho capito, ci proverò. Non posso fare altrimenti. – E Pàride prese la mela d’oro tra le mani, pensieroso. Allora Era gli si avvicinò e disse: – O Pàride, principe di Troia, se giudicherai me la più bella, ti renderòpadrone di tutta l’Asia e ricco più di qualsiasi altro uomo sulla terra. Dopo Era parlò Atena: – Guardami, figlio del re Priamo, e sappi che se darai a me la mela d’oro io ti renderòun guerriero invincibile, il più forte, ma anche il più saggio, di tutti gli uomini. Fu quindi la volta di Afrodite, che soavemente sussurrò: – Ascoltami, bel giovane, se darai a me il pomo della vittoria, io ti darò in moglie la più bella donna del mondo: Elena di Sparta, che è figlia di Leda e di Zeus stesso ed è bionda, bianca e delicata, bella e amorosa quanto me, parola di dea. – Sì, – ribatté Pàride – è la più bella donna del mondo, ma è anche moglie di Menelao! E non posso credere che abbandonerebbe il marito e la sua reggia, a Sparta, per seguire uno sconosciuto, un forestiero. – Ah, ah, ah! – gorgheggiò Afrodite – Come sei giovane e inesperto! So io come fare a convincerla… – E come farai? Voglio saperlo anch’io. – Dunque, caro ragazzo, tu andrai in Grecia e io ti darò il mio figlioletto Eros, il piccolo dio dell’amore, come compagno di viaggio. Quando sarai a Sparta, Eros, di nascosto, colpirà la bella Elena con una delle sue frecce facendola innamorare pazzamente di te. Io poi ti prometto la mia protezione, per sempre. – Me lo giuri? – gridò Paride. – Certo che sì. Afrodite giurò e Pàride le consegnò il pomo prezioso. Ma in questo modo si attirò l’odio delle altre dee, che si allontanarono complottando la rovina della sua città: Troia. Tempo dopo Pàride ottenne dal padre di essere inviato come ambasciatore a Sparta, dove regnavano Menelao ed Elena. Il principe di Troia fu accolto con tutti gli onori da Menelao e il suo arrivo venne annunciato da un’ancella alla regina: – Da una città lontana, di là dal mare, è giunto qui un giovane straniero. È bellissimo e indossa vesti meravigliose intessute d’oro e d’argento. Chiede di poterti offrire i doni che porta con sé. Elena, allora, indossò una tunica bianca e leggera, fittamente pieghettata, posò un diadema d’oro sui bei capelli lucenti d’olio profumato e andò incontro all’ospite. Quando la bella donna entrò nella sala del banchetto, a Pàride sembrò di vedere una dea. Non poteva staccare gli occhi da lei e ogni suo sorriso lo riempiva di felicità. – Non potrò mai amare altra donna che questa – pensava – e non avrò pace finché non la farò mia sposa. È questa la donna che Afrodite ha promesso di darmi e l’avrò. A ogni costo. La porterò con me a Troia e sarò felice con lei, per sempre. Mentre pensava queste cose non smetteva di lanciare a Elena sguardi appassionati, sospirando. Anche la regina lo guardava, di tanto in tanto, un po’ compiaciuta, un po’ imbarazzata. Quelle dolci occhiate resero Pàride sempre più ardito. Elena aveva appena posato sulla tavola il calice d’oro in cui aveva bevuto, che Pàride lo afferrò e se lo portò alla bocca posando le labbra dove lei aveva appena messo le sue, poi intinse un dito nel nero vino e tracciò sulla tavola le parole: – Ti amo, Elena. Preoccupatissima, Elena coprì la scritta con il suo tovagliolo e guardò il marito, timorosamente. Ma Menelao non si era accorto di nulla e continuava tranquillamente a mangiare, a bere, a rivolgere all’ospite domande sul suo Paese lontano. L’indomani, il re distratto partì per l’isola di Creta, lasciando sola con lo straniero la giovane moglie. Di nuovo Pàride dichiarò alla regina il suo amore: – Mai nessuno ti amerà quanto ti amo io. Parti con me e ti farò felice. Elena era affascinata dalla bellezza, dalla gentilezza e dalla devozione del giovane principe straniero, ma resisteva, perché sapeva che non era giusto abbandonare la casa, il marito e la figlioletta ancora piccola che aveva bisogno di lei. Perciò non rispondeva agli inviti di Paride ma neppure si allontanava da lui. Soltanto quando scese la notte si ritirò nella propria stanza, ma non riuscì a prendere sonno. Ormai Eros, il dio dell’amore, aveva acceso in lei la fiamma della passione. Appena chiudeva gli occhi, la regina innamorata rivedeva il bel volto del principe straniero, ne riudiva le tenere parole. La sua mente e il suo cuore non potevano staccarsi da lui. Prima che la luce dell’alba scivolasse nella stanza, Elena aveva preso la sua decisione: quella notte stessa avrebbe raggiunto Pàride nella sua nave e sarebbe fuggita con lui. Così fu.


Ulisse e Polifemo
Ulisse, re di Itaca, un’isola greca, nel suo pellegrinaggio con le sue dodici navi nel mare mediterraneo, si imbatté nelle ire di Zeus che aveva scatenato un’altra violenta tempesta ed Ulisse e i suoi uomini, furono talmente sballottati da perdere la nozione del tempo e non sapersi più orientare. Così, quando videro profilarsi una grande isola tutta verde cosparsa  di scogli ed insenature create da preistoriche colate laviche e con un vulcano sbruffante fuoco, fumo e lapilli incandescenti, ma  imbiancato di neve  sembrava bellissimo, in fondo si notavano dei greggi ben pasciuti, a questa vista fecero salti di gioia. Ma non sapevano di trovarsi in Sicilia, nella terra dei Ciclopi. Nell’isola di Sicilia, nei dintorni del vulcano Etna, vivevano sette fratelli ed erano tutti giganteschi e terribili. Di quattro si sapeva il nome: Bronte, Sperone, Arge e  Polifemo che era Il primogenito e il più mostruoso, egli in particolare aveva una simpatia per il fratellastro Bronte. Erano figli di Poseidone e appartenevano alla razza dei ciclopi, in particolare  avevano un unico grande occhio in mezzo alla fronte. Tutti vivevano di pastorizia, ed erano brutti rozzi e cattivi,e quando avvistavano dei vascelli all’orizzonte, si nascondevano spiandoli con il loro unico occhio, rosso di venature , occhi che sprigionavano odio e malvagità verso gli umani, e il solo pensiero di incontrarli metteva paura, quando i vascelli dei malcapitati si trovavano a tiro, li prendevano di mira scagliando loro pietre e grandi massi, ma a causa dell’unico occhio difficilmente mettevano a segno le loro mascalzonate, e quando ci riuscivano si eccitavano talmente da sbattere con tutta la loro forza sovrumana i pugni per terra , e tutto questo creava tremoli e boati in tutta l’isola. Un giorno Polifemo pascolava le sue greggi quando Ulisse e i compagni giungono alla sua enorme spelonca e, credendo nell’ospitalità del Ciclope, portarono in dono molto vino e rimangono ad attenderlo per favorire assieme al mostro i suoi viveri. Avevano appena radunato una decina di pecore, quando udirono dei ruggiti e un pesante calpestio che faceva tremare le rocce. Terrorizzati, si tuffarono in fondo alla caverna nascondendosi dietro un masso. Ed ecco entrare un gigante dall’aspetto spaventoso. Si accoccolò sulla soglia, gracchiando: «Venite qui, mie greggi. Venite da Polifemo per essere munte». Ulisse ebbe un sussulto. Aveva sentito parlare di Polifemo e dei ciclopi e sapeva che erano nei guai. Essi, infatti, non lavorano la terra “.. fidando negli dei immortali..”, non sanno navigare ,non vivono in gruppi più ampi del loro ristretto gruppo famigliare e “..ciascuno comanda sui figli e le mogli, incuranti gli uni degli altri.. “..costoro non hanno assemblee di consiglio, né leggi..”,  Conclusa la mungitura, il Ciclope accese il fuoco e, solo quando le fiamme cominciarono a farsi alte e brillanti, notò i dodici uomini nascosti dietro la roccia. Emise un assordante ruggito di rabbia. «Stranieri!» ringhiò. «Ladri di pecore! Vi farò a pezzi e vi mangerò per cena!». Qualcuno dallo spavento morì, Un attimo dopo afferrò due uomini e se li cacciò in bocca, stritolandoli trai denti aguzzi. Poi, dopo aver rotolato un grande macigno all’ingresso della caverna, si distese a dormire. Mentre il suo russare echeggiava tra le pareti, Ulisse tentò di escogitare un piano. Ma non gli venne in mente nulla. Così, la mattina dopo, il gigante prese altri due uomini e li divorò come aveva fatto con gli altri. Dopo di che uscì con le pecore, rotolandosi il macigno alle spalle. Erano in trappola! Ulisse notò un tronco buttato in terra. Gli diede un’idea. Lo appuntì fino a quando il tronco divenne una lunga pertica appuntita. Lo stavano nascondendo in un angolo quando Polifemo fu di ritorno. Come la sera prima, munse le pecore e sbranò altri due uomini. Poi fece un rutto poderoso e dopo aver rotolato il macigno all’imbocco si distese per terra. Ma questa volta non si addormentò subito e Ulisse saltò fuori a parlargli. «Ciclope, ei Ciclope Forse gradiresti un po’ di buon vino color rubino, dopo un simile pasto a base di carne, sappi che il vino rosso ben si abbina ai grandi bocconi di carne grande Ciclope!»(e qui che salta alla memoria il primo sommelier della storia) Così saprai che sorta di bevanda è questa che la nave nostra teneva in serbo gli disse timidamente Ulisse con il nodo alla gola per la perdita dei suoi uomini. E Polifemo gli rispose “Come osi tu di consigliarmi quel che devo fare, e chi sei tu?” E Ulisse rispose ben consapevole di non dover dire la verità,  IL mio nome è “Nessuno” e sono il condottiero di questi sventurati uomini che per sbaglio sono venuti a disturbarti” Polifemo per un attimo esitò, e rimase diffidente verso questa confidenza Ora il fuoco emanava un bel tepore. Polifemo vi si distese accanto e tese le sue enormi mani per scaldarle. « Ben fatto» disse. « Voi uomini sarete delle piccole, insignificanti creature, ma avete acceso un bel fuoco». Ulisse finse di essergli grato. « Vogliamo solo servirti, grande Polifemo» disse al Ciclope.. Egli prese la ciotola e bevve fino in fondo: e gustò visibilmente la dolce bevanda, e me ne chiedeva ancora, una seconda volta: ‘Dammene ancora, da bravo. E dimmi di nuovo il tuo nome subito, ora. Voglio fartelo, il dono ospitale: e tu ne sarai contento. Anche ai Ciclopi produce la terra vino da grossi grappoli: ma questo è uno zampillo di nettare e d’ambrosia.  ”Ciclope, mi chiedi di nuovo il nome famoso, ed io te lo dirò: tu dammi, come hai promesso, il dono ospitale. Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e Nessuno mi chiamano tutti gli altri compagni e sono il condottiero di questi marinai che si sono persi a causa della tempesta. ” “Ebbene (rispose il ciclope) il dono che voglio farti e quello che ti mangerò per ultimo”. Quando il mostro crollò dopo essersi ubriacato bevendo il dolce nettare che aveva portato Ulisse, sembrava essere scesa la quiete nella spelonca, allora Ulisse ed i suoi uomini presero il grosso tronco lo arroventarono nel fuoco e quando era ben arroventato lo presero tutti insieme e lo conficcarono nell’occhio del ciclope, un urlo terribile uscì dalla gola del mostro, che fece tremare tutta la montagna, Si premette le mani sull’occhio, gridando e ruggendo, tanto che i Greci erano assordati dal rumore. « Perché è così buio?» muggì Polifemo. « Non vedo più niente!» Cominciò a tastare le pareti e il pavimento della caverna, cercando Ulisse e i suoi compagni. Le sue immense dita continuavano a percuotere il terreno vicino a loro: erano abbastanza grosse per schiacciarli. Ulisse corse verso il mucchio di pelli di pecora. Velocemente ne lanciò una a ciascun compagno. « Copritevi con queste, e mettetevi a quattro zampe!» esclamò. « Poi raggiungete carponi l’ingresso della caverna». Svelti i Greci fecero quanto Ulisse aveva detto. Improvvisamente Ulisse sentì le dita del Ciclope tastare la pelle di pecora che gli copriva il dorso: avevano un peso colossale. Polifemo toccò ancora una pelle di pecora, poi un’altra e un’altra. Sotto ciascuna di esse c’era un Greco. « Sono scappati» ruggì. « Quegli astuti furfanti! Mi hanno accecato e sono scappati. Sono rimaste solo le pecore nella caverna». Quanto più velocemente potevano, Ulisse e i suoi compagni uscirono carponi dalla grotta. Una volta fuori, si tolsero le pelli di pecora che avevano salvato loro la vita e corsero verso la spiaggia. « La nave è troppo danneggiata per salpare» disse in fretta Ulisse. « Ma le scialuppe sono a posto. Presto! Mettiamole in acqua e allontaniamoci dall’isola».  Ne frattempo i fratelli di Polifemo sentendo quelle spaventose urla si avvicinarono per poter capire cosa era successo,ma conoscendo la irascibilità di Polifemo nessuno aveva il coraggio di chiedergli spiegazioni all’or quando  Bronte ne ebbe il coraggio e domandò”Polifemo cos’è successo ? perche gridi ed urli cosi forte?” e Polifemo rispose aah è stato Nessuno.” I ciclopi si guardavano l’un l’altro non capendo cosa lui volesse dire, e di nuovo Bronte dietro consiglio degli altri Ciclopi domandò:”Polifemo perche gridi così forte e  cosa ti è successo?”e Polifemo Rispose” aah ulisse-sfugge-alle-ire-di-polifemonessuno è stato  Nessuno mi ha accecato, e Nessuno con i suoi uomini è scappato via,Nessuno amici mi uccide con l’inganno, non con la forza!..”, A questo punto i ciclopi si sentirono presi in giro, gli voltarono le spalle e se ne andarono via. Appena fuori dalla grotta, il gruppo dei sei corse precipitosamente verso la nave, dove l’equipaggio aveva già preparato tutto per la partenza. Aiutandosi con la vela e con i remi, in breve tempo le navi si allontanarono dalla costa

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